Il ritiro delle truppe americane dalla Siria è una decisione che ha un peso strategico rilevante e si inserisce in una dinamica più ampia della politica estera statunitense. Gli Stati Uniti non hanno mai avuto un impegno militare massiccio nel Paese, ma la loro presenza, circa 2mila soldati, ufficialmente impegnati in operazioni di contrasto all’ISIS e nella protezione delle forze curde, è stata sufficiente per mantenere un presidio strategico in una regione altamente instabile.
Dal punto di vista militare la decisione dell’amministrazione Trump di ritirare le truppe comporta il rischio di lasciare campo libero a potenze rivali come Russia, Iran e Turchia. I curdi delle SDF, che hanno combattuto contro l’ISIS con il sostegno americano, si troverebbero esposti alla pressione di Ankara, che li considera un’organizzazione terroristica, e a una probabile riorganizzazione dei gruppi jihadisti ancora presenti in Siria. Il rischio più concreto è che le milizie filo-iraniane, già presenti nell’area, possano colmare il vuoto lasciato dagli americani, consolidando ulteriormente il controllo di Teheran lungo la direttrice che collega l’Iran al Mediterraneo attraverso Iraq, Siria e Libano.
Strategicamente il ritiro americano rappresenta una chiara riduzione dell’influenza statunitense nel Medio Oriente, in linea con il progressivo disimpegno iniziato sotto l’amministrazione Obama e poi accelerato da Trump. Dopo vent’anni di guerre in Iraq e Afghanistan, Washington sta spostando il suo focus verso il confronto con la Cina nel Pacifico e verso la competizione con la Russia in Europa. Mantenere truppe in Siria, senza un obiettivo politico chiaro e senza una strategia di lungo termine, è diventato un costo che gli Stati Uniti non vogliono più sostenere.
Sul piano politico la decisione di Trump è perfettamente coerente con il suo approccio “America First”. L’idea di ridurre l’impegno militare all’estero è sempre stata centrale nella sua retorica e il ritiro dalla Siria serve a ribadire il concetto: gli Stati Uniti non vogliono più farsi carico della sicurezza globale, soprattutto quando gli alleati locali, in questo caso i curdi, non hanno un peso sufficiente per influenzare direttamente le scelte di Washington. Ma questa mossa ha anche un valore interno: il disimpegno dalle guerre mediorientali è una promessa elettorale con un forte impatto sull’elettorato conservatore e isolazionista, lo stesso che aveva visto con favore la fine della guerra in Afghanistan.
A livello internazionale, la decisione manda un messaggio ambiguo. Da un lato, conferma che gli Stati Uniti non intendono più sacrificare uomini e risorse per conflitti di bassa intensità senza prospettive di vittoria. Dall’altro, rafforza l’immagine di un’America imprevedibile e poco affidabile per i suoi alleati, un segnale che pesa soprattutto per quei Paesi che dipendono dalla protezione americana per mantenere il loro equilibrio regionale.
Nel breve termine, il ritiro favorirà sicuramente Mosca e Teheran, che potranno rafforzare la loro posizione in Siria senza più la presenza americana a ostacolare i loro piani. La Turchia, dal canto suo, potrebbe approfittare della situazione per colpire i curdi, ridisegnando ancora una volta la mappa del nord della Siria. Ma la vera domanda è se gli Stati Uniti, una volta usciti, potranno davvero permettersi di non rientrare. Perché la storia insegna che ogni vuoto di potere in Medio Oriente viene sempre riempito da qualcuno, e quasi mai dagli attori più desiderabili.
FONTE: https://www.notiziegeopolitiche.net/siria-trump-ritira-i-militari-usa/
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