Jimmy Carter, 39° presidente degli Stati Uniti dal 1977 al 1981, si è spento domenica 29 dicembre all’età di 100 anni, nella sua storica casa a Plains, Georgia. La scomparsa di Carter arriva a otto mesi di distanza da quella della moglie Rosalynn, con cui è stato sposato per ben 77 anni. Fino a poche settimane prima della morte, suo nipote Jason aveva descritto Carter come “immerso nel mondo come meglio poteva”, nonostante le sue precarie condizioni di salute.
Dalla Georgia alla Casa Bianca
Nato a Plains, Carter si è fatto strada in politica diventando governatore della Georgia nel 1971. Il 12 dicembre 1974 annunciò la sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti, conquistando la nomination democratica nel 1976. Quell’anno, il 2 novembre, vinse le elezioni, assumendo la presidenza il 20 gennaio 1977.
Durante il suo mandato, Carter si distinse per il suo approccio idealista ma al tempo stesso pragmatico, in modo particolare nel campo della politica estera. Tra i suoi traguardi più rilevanti, gli Accordi di Camp David del 1978, che portarono alla firma di un patto storico tra il presidente egiziano Anwar Sadat e il primo ministro israeliano Menachem Begin, gettando le basi per una pace duratura tra i due Paesi. Nonostante questi successi, Carter perse la rielezione nel 1980 contro il repubblicano Ronald Reagan, ponendo fine al suo mandato il 20 gennaio 1981.
L’attività dopo la Casa Bianca
Dopo la presidenza, Carter si dedicò ad attività filantropiche sostenendo Habitat for Humanity, un’organizzazione che costruisce case per i meno abbienti. Nel 2002, il suo lavoro fu riconosciuto con il Premio Nobel per la Pace. In una nota ufficiale, il Carter Center ha dichiarato: “Jimmy Carter, 39° presidente degli Stati Uniti e vincitore del Premio Nobel per la Pace, è morto serenamente domenica 29 dicembre nella sua casa di Plains, Georgia, circondato dalla sua famiglia. Aveva 100 anni, il presidente più longevo nella storia degli Stati Uniti”.
I messaggi di Biden e Trump
In un sentito messaggio, il presidente Joe Biden ha descritto Carter come uno “statista umanitario”, sottolineando l’impatto globale della sua opera: “Jimmy Carter ha salvato, sollevato e cambiato le vite di persone in tutto il mondo”. Biden ha elogiato l’impegno morale e la leadership di Carter, ricordando il suo ruolo come figura di riferimento nelle sfide cruciali della storia americana.
Anche Donald Trump si è unito al coro di tributi, lodando l’ex presidente per la sua resilienza durante un periodo critico per la nazione: “Le sfide che Jimmy ha affrontato come presidente sono arrivate in un momento cruciale per il nostro Paese, e ha fatto tutto ciò che era in suo potere per migliorare la vita di tutti gli americani. Per questo, gli dobbiamo molto”.
La politica estera di Carter
La rappresentazione che si è consolidata della presidenza di Jimmy Carter nel corso di circa 40 anni è stata spesso fuorviante. La narrazione prevalente dipinge Carter come un leader idealista ma debole, una semplificazione che non rende giustizia alla complessità del suo mandato e alla sua figura politica.
La verità è che Carter ha lasciato un segno indelebile nella politica internazionale, unendo una visione umanitaria e idealista alla più tradizionale realpolitik nei momenti di crisi che ha dovuto affrontare, benché il suo approccio alla presidenza abbia spesso suscitato giudizi contrastanti. Come ricorda Foreign Affairs, uno degli episodi più significativi del mandato di Carter si svolse nel settembre 1978, durante i negoziati di pace a Camp David con il presidente egiziano Anwar al-Sadat e il primo ministro israeliano Menachem Begin. Dopo 13 giorni di trattative serrate, con Begin pronto ad abbandonare i colloqui, Carter fece un gesto personale e inatteso: consegnò fotografie firmate e dedicate ai nipoti di Begin, toccando profondamente l’uomo e convincendolo a restare. Questo atto culminò in un accordo storico che pose le basi per il trattato di pace israelo-egiziano, un risultato che gli valse il riconoscimento internazionale come negoziatore di pace.
Carter arrivò alla Casa Bianca nel 1977 con un programma basata su diritti umani e disarmo nucleare, in netto contrasto con il realismo politico dei suoi predecessori. Tuttavia, il contesto internazionale lo spinse a rivedere alcune delle sue posizioni. Di fronte all’espansionismo sovietico in Africa e Medio Oriente e alla crescente instabilità economica globale, Carter aumentò le spese per la Difesa e approvò sistemi d’arma avanzati che furono poi sviluppati durante l’amministrazione Reagan. Guidato dal consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, Carter trovò in lui il suo principale mentore.
La missione in Cina
La normalizzazione delle relazioni tra gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare Cinese (RPC) durante la presidenza di Jimmy Carter è stato un momento cruciale nella politica estera americana in Asia. Fino agli anni ’70, i contatti tra i due paesi erano limitati, ma la storica visita del presidente Richard Nixon in Cina nel 1972 aveva aperto la via a negoziati. Quando Carter assunse la presidenza, i colloqui per stabilire legami ufficiali erano bloccati, ma lui decise rapidamente di proseguire.
Il 1° gennaio 1979, Stati Uniti e Cina si riconobbero ufficialmente. Inoltre, gli Stati Uniti riconobbero la posizione cinese secondo cui esiste una “Cina unica”, che include Taiwan, una politica che gli Stati Uniti mantengono tuttora. La presidenza Carter accettò anche di interrompere il trattato di difesa con Taiwan, pur continuando a sostenere l’isola in modo non ufficiale.
La dura accusa a Israele
Come ricorda Haaretz, Carter è stato spesso (ingiustamente) tacciato di “antisemitismo” da parte di una fetta di ebrei americani. Motivo? Durante il suo mandato, sostenne con fermezza che Israele dovesse sospendere la costruzione di nuovi insediamenti in Cisgiordania, ritenendoli un ostacolo a una soluzione a due stati e alla pace nel conflitto israelo-palestinese. Inoltre, avvertì che il percorso intrapreso da Israele rischiava di portare a un regime di apartheid.
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