Alberto Fujimori, il presidente che governò in modo autoritario il Perù dal 1990 al 2000, è morto all’età di 86 anni. Saputa la notizia, un gruppo di manifestanti si è riunito a Plaza San Martín, nel cuore di Lima, per festeggiare tra canti e balli. A pochi chilometri, presso il Ministero della Cultura, politici e simpatizzanti hanno invece affollato la veglia funebre. Al cordoglio nei confronti del dittatore si è unita anche l’attuale presidente del Paese, Dina Boluarte, eletta tra le fila dei socialisti. Contestualmente è stato proclamato un lutto nazionale di tre giorni. Uno spaccato alquanto polarizzato per una figura condannata a 25 anni di carcere per crimini contro l’umanità commessi durante il mandato presidenziale. Un lasso di tempo che ha visto anche la stabilizzazione economica del Paese; tanto è bastato ai media di tutto il mondo per definire Fujimori una figura soltanto “controversa”.
L’elezione democratica e la svolta autoritaria
Prima di essere un dittatore, Alberto Fujimori è stato un professore universitario, che nel 1989 decise di candidarsi alle elezioni presidenziali contro il neoliberista Mario Vargas Llosa. Il Perù stava attraversando una profonda crisi economica, caratterizzata da alti livelli di inflazione, disoccupazione e debito estero. Fujimori scese in campo da outsider tra le fila di Cambio 90, un partito che oscillava tra il centro e la destra dello spettro politico. Al primo turno raccolse appena il 29 per cento dei voti, contro il 32 per cento di Mario Vargas Llosa. Due giorni dopo Fujimori raddoppiò il consenso grazie al sostegno di Izquierda Unida, una coalizione di sinistra, e diverse sigle sindacali, che vedevano nel professore universitario un male minore rispetto alle idee neoliberiste del suo avversario. Idee che, una volta eletto, Fujimori si affrettò tuttavia a implementare, realizzando ad esempio una massiccia privatizzazione delle imprese statali.
Il neoeletto presidente peruano organizzò poi una repressione violenta nei confronti di Sendero Luminoso, il movimento maoista che attraverso la lotta armata intendeva rovesciare il governo e realizzare uno Stato comunista, basato tra le altre cose sulla ridistribuzione delle terre ai contadini. Nel 1992, con il sostegno delle forze armate, Fujimori attuò un autogolpe, sciogliendo il Congresso e assumendo pieni poteri. Da quel momento la repressione raggiunse un livello superiore, finendo per colpire centinaia di civili tra sparizioni ed esecuzioni extragiudiziali. Poco dopo il colpo di Stato, Fujimori varò infatti una riforma della giustizia che accelerò i tempi dei processi e previde la possibilità di passare per tribunali militari segreti nei casi di “sospetti terroristi”.
Sotto il suo mandato – e la sua guida – agirono diversi gruppi paramilitari che ben presto si resero protagonisti di feroci massacri, tra cui quello di Barrios Altos, nel 1991, e La Cantuta, avvenuto l’anno seguente. Nel primo caso il Grupo Colina uccise 15 civili, tra cui un bambino di otto anni, che stavano partecipando a una festa di compleanno in un distretto operaio di Lima. Inizialmente il gruppo paramilitare rivendicò l’attacco come un’operazione contro dei membri del Sendero Luminoso; soltanto in un secondo momento emerse la verità e il massacro divenne uno dei simboli della repressione dei diritti umani messa in atto dal regime di Fujimori. L’altro non tardò ad arrivare: nel 1992 il Grupo Colina fece sparire nove studenti dopo averli rapiti e torturati, con l’accusa (infondata) di appartenere all’organizzazione comunista.
In questo clima di terrore il regime di Fujimori riuscì nell’intento di neutralizzare il Sendero Luminoso. Nell’ultimo decennio del Novecento rimasero all’ordine del giorno le sparizioni di giornalisti, sindacalisti e politici, così come il controllo ferreo dei media. La repressione di qualsiasi forma di opposizione fu utile al presidente peruano per trasformare il Paese nell’ennesimo laboratorio neoliberista dell’America Latina. Il pacchetto di tali riforme – incentrate su privatizzazione, liberalizzazione e austerità – prese il nome di Fujishock. Si trattò, in effetti, di implementare le raccomandazioni della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, che di tutta risposta aiutarono il Paese con prestiti e la ristrutturazione del debito estero. La stabilizzazione economica avvenne a elevati costi sociali, con la classe lavoratrice che per anni dovette fare i conti con disoccupazione e perdita di potere d’acquisto.
Il piano economico di Fujimori passava poi per l’ennesima violazione dei diritti umani. Durante il suo mandato, in particolare tra il 1996 e il 2000, vennero sterilizzate contro la propria volontà circa 300mila donne appartenenti alle comunità indigene o parte di nuclei familiari poco abbienti. Così facendo il presidente peruano pensava di ridurre la povertà nelle zone rurali del Paese.
Gli ultimi anni e i conti con la giustizia
Nel 2000 Fujimori forzò il disposto costituzionale per candidarsi – e vincere con non poche accuse di illegittimità e brogli – a un terzo mandato presidenziale. Poche settimane dopo le elezioni uno scandalo di corruzione e violazione dei diritti umani si abbatté sul regime, in particolare su Vladimiro Montesinos, il capo dei servizi segreti nonché braccio destro del presidente. Quest’ultimo, in viaggio verso il Giappone, decise di dimettersi via fax. Iniziò così un periodo di cinque anni di asilo nel Paese di origine dei suoi genitori, mentre in Perù la macchina giudiziaria muoveva i primi passi verso il suo processo. Nel 2005 Fujimori si recò in Cile, dove venne arrestato e due anni dopo estradato in Perù.
Tra il 2007 e il 2009, dopo quasi vent’anni di impunità, Fujimori fu finalmente chiamato a rispondere davanti alla legge per i massacri di Barrios Altos e La Cantuta, dei quali fu riconosciuto come mandante. Venne condannato anche per la partecipazione ai sequestri del giornalista Gustavo Gorriti e dell’imprenditore Samuel Dyer. A ciò si aggiunse la realizzazione del citato programma di sterilizzazione forzata. Per questi capi di accusa il 7 aprile 2009 Alberto Fujimori fu condannato a 25 anni di prigione: l’America Latina assisteva per la prima volta alla condanna di un ex presidente per crimini contro l’umanità. Il 24 dicembre 2017 l’allora presidente peruano Pedro Pablo Kuczynski optò per l’indulto nei confronti di Fujimori, in quello che apparì fin da subito un compromesso con Kenji Fujimori, figlio di Alberto, che tre giorni prima aveva convinto i suoi ad astenersi durante l’impeachment di Kuczynski. La votazione non raggiunse il quorum dei due terzi e 72 ore dopo il presidente peruano fece un regalo di Natale alla famiglia Fujimori. Dopo quasi un anno la Corte Suprema annullò l’indulto e spedì nuovamente il dittatore in carcere, salvo tornare sui propri passi il 5 dicembre 2023, quando ne ordinò la definitiva liberazione.
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