Il Rapporto sulla competitività europea preparato dall’ex presidente del Consiglio italiano e della Banca centrale europea Mario Draghi su incarico della Commissione Ue di Ursula von der Leyen è prossimo alla pubblicazione, dopo essere stato discusso a porte chiuse con gli ambasciatori dei Paesi del blocco e i capigruppo del Parlamento europeo. E già dalle prime indiscrezioni si preannuncia come fortemente orientato a una svolta politica su un tema strategico: la difesa dell’Europa.
Cosa dice Draghi sulla difesa
Lo ha anticipato Politico.eu, ricordando che Draghi nel rapporto ha scritto: “Con il ritorno della guerra nelle immediate vicinanze dell’Ue, l’emergere di nuovi tipi di minacce ibride e un possibile spostamento dell’attenzione geografica e delle esigenze di difesa degli Stati Uniti, l’UE dovrà assumersi una crescente responsabilità per la propria difesa e sicurezza”. Sulla carta, un principio chiaro. La cui applicazione, in mano all’attuale Commissione, è ancora tutta da vedere. In altre parole: leggiamo nella presa di posizione di Draghi, o perlomeno nella versione che viene data, un richiamo al principio del “dominio dell’emergenza” come motore dell’azione politica.
Draghi chiede de-burocratizzazione, accelerazione degli investimenti, mobilitazione industriale e riforme-shock per rendere l’Europa sempre più autonoma sul fronte della Difesa. Ma a far da movente sembra essere non tanto – o non primariamente – il desiderio di un’Europa più solida, forte e coesa ma la molla emergenziale: ovviamente, anche alla luce dell’esperienza di Draghi come capo del governo italiano, da identificare con i “barbari alle porte”, la Russia di Vladimir Putin. A oggi ancora impantanata nel conflitto ucraino in cui da due anni non viene a capo di palesi deficit come quelli inerenti la mobilità delle truppe e la logistica. Ma assurta a spauracchio strategico e “emergenza” di turno.
E, del resto, nonostante i grandi appelli a ridurre la dipendenza da oltre Atlantico, a creare filiere europee per l’industria, a progettare scenari di autonomia strategica europea, il fine del Draghi-pensiero sembra ampiamente complementare al dettame strategico degli Stati Uniti d’America. L’Europa come gamba dell’Occidente nella deterrenza dei rivali di Washington, in cui le regole per welfare, infrastrutture, sviluppo sostenibile in campi come gli aiuti di Stato e il rigore possono esser demolite in nome del riarmo. E di quella “dottrina dello shock” di derivazione americana che associa alle fasi di crisi l’accelerazione dei processi istituzionali.
Il Draghi-pensiero e la sovranità europea
Non c’è, insomma, nel Draghi-pensiero sulla Difesa europea un concetto organico per un’agenda indipendente del Vecchio Continente. Quel concetto che, invece, traspariva nella lucida lettura che un quarto di secolo fa, alle porte del Duemila, l’allora presidente della Commissione Europea Romano Prodi aveva esplicitato e di cui per molto tempo non si è più parlato. E che si fondava su una lettura: l’Europa della Difesa comune, della Difesa più solida avrebbe dovuto nascere per sdoganare un ampliamento del potenziale geopolitico del Vecchio Continente e renderlo meno dipendente da agende esterne.
In quest’ottica, invece, al netto dei distinguo industriali e produttivi (che, come il resto del report, meriteranno un’analisi organica a rapporto completo disponibile) il senso geo-strategico del pensiero di Draghi è che l’Ue debba muoversi sulle linee-guida decise da Washington. Ovvero: considerazione esplicita della Russia come un rivale, contributo a una divisione del lavoro che apra agli Usa lo spostamento di risorse nel primario teatro del Pacifico in risposta alla Cina, interiorizzazione dell’idea di un contemporaneo contenimento delle potenze rivali di Washington, come del resto l’accenno alle sempreverdi “minacce ibride” lascia trasparire, e sostanziale identificazione delle agende di Unione Europea e Nato. Tutto in nome della reazione a una di quelle emergenze cui spesso si delega il principio di elaborazione politica nel mondo contemporaneo.
L’uomo delle emergenze
Del resto, si sa, Draghi è l’uomo delle emergenze. Ha gestito alla Bce la crisi dell’Eurozona durante la fase della crisi dei debiti seguita alla Grande Recessione, con un bilancio di alti e bassi che su queste colonne abbiamo commentato più volte. In seguito, è stato chiamato da Sergio Mattarella a guidare il governo di unità nazionale nel 2021 in nome della lotta alla pandemia di Covid-19 e della “tregua” istituzionale tra partiti di fronte alla crisi sanitaria. Oggi, von der Leyen gli ha proposto il rapporto per gestire l’emergenza dell’adattamento dell’Europa ai tempi che corrono.
Un filo rosso, spesso poco esplorato, raccorda queste manovre “emergenziali” in cui Draghi, dopo le lunghe esperienze da grand commis che in Italia l’hanno portato ai vertici del Tesoro e della Banca d’Italia, si è impegnato. Ed è il filo rosso del legame profondo con Washington. Grande sponsor, nel 2011 e nel 2021, della sua ascesa all’Eurotower di Francoforte e a Palazzo Chigi.
Figlio della corrente di pensiero liberalsocialista che ha creato una nuova fase all’atlantismo italiano, formato attraverso un dottorato al Massachusetts Institute of Technology sotto la direzione del futuro premio Nobel Franco Modigliani, ben inserito negli ambienti economico-finanziari transatlantici tra gli Anni Ottanta e Novanta e ispirato dal quantitative easing di Ben Bernanke nell’operare le sue azioni da governatore della Bce, Draghi in entrambe le occasioni ebbe l’appoggio a stelle e strisce nella sua scalata.
Nel primo caso, la nomina di Draghi alla Bce fu ispirata, come raccontato dall’economista Giulio Sapelli, dal desiderio dell’amministrazione Obama di avere oltre Atlantico una figura apicale capace di depotenziare l’austerità germanocentrica.
Draghi sulla scia di Washington
Nel 2021 il presidente Mattarella chiamò Draghi dopo la caduta di Giuseppe Conte anche perché figura capace di fungere da ponte con la nuova amministrazione di Joe Biden in un quadro che, alla luce del Covid, aveva riportato la competizione tra blocchi in auge e chiedeva all’Italia un riflusso delle sortite verso attori come Cina e Russia di cui l’attuale leader del Movimento Cinque Stelle si era fatto ispiratore. Una scelta che, sul piano strategico, a Washington ha portato benefici, visto il graduale allontanamento di Draghi dalla Nuova via della seta e il convinto sostegno a Kiev. Ora, con la spinta alla Difesa europea l’Ue si candida, indipendentemente da chi sarà il vincitore delle presidenziali Usa tra Donald Trump e Kamala Harris, a inserire sul solco di Washington l’applicazione geo-strategica del suo riarmo. Che sarà dunque elaborata nei pensatoi di oltre Atlantico.
E Draghi, in quest’ottica, si inserisce in scia a Ursula von der Leyen e alla neo-nominata commissaria per la Politica Estera e di Sicurezza Comune, l’ex premier estone Kaja Kallas, nel blindare un’agenda politica che fa dell’atlantismo senza esitazioni la stella polare della proiezione dell’Unione Europea. E che sembra non considerare, in larga parte, un mondo che cambia dove attori-ponte giocano a cavallo tra i blocchi e dove i confini di ciò che è competizione, ciò che è una situazione di pace e ciò che invece è un contesto conflittuale sono più sfumati. Il “competente” per eccellenza, Draghi, insomma, sembra con le sue scelte contribuire a semplificare, forse eccessivamente, la lettura di un mondo che non è mai stato così complesso. Contribuendo a rendere oggetto, prima ancora che soggetto, un’Europa che necessità di originalità di pensiero per il suo futuro.
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