Il vento è cambiato. Dall’arresto di Pavel Durov in Francia alle lettere del commissario europeo Thierry Breton contro il proprietario di X, Elon Musk, passando per il giro di vite nel Regno Unito e in Brasile. Non c’è dubbio che un cambiamento sia in atto e le democrazie liberali, così come i regimi autoritari, vogliano avere maggiore controllo sulle piattaforme social. Anche a costo di sacrificare valori e diritti costituzionali come la libertà di parola e di espressione.
Il 2 settembre, sul Washington Post, l’influente editorialista Will Oremus annunciava questo cambio di paradigma: “Sebbene le aziende tecnologiche più disinvolte si siano a lungo scontrate con regimi autoritari – Google in Cina, Facebook in Russia o il Twitter pre-Musk in Turchia – i Governi occidentali fino a poco tempo fa generalmente non consideravano i social media e la visione della libertà di parola che promuovevano come in contrasto con la democrazia”. Infatti, “vietare intere reti sociali o arrestare i loro dirigenti non era qualcosa che le democrazie liberali facevano. Ora, nel bene o nel male, lo fanno”. Oremus aggiunge che, sebbene i casi di Durov e Musk siano diversi, entrambi “coinvolgono Governi democratici che hanno perso la pazienza con i magnati tecnologici cyberlibertari” che “sfidano apertamente le autorità”. Evidenzia un “cambio di atmosfera”, notando che “i leader tecnologici in ascesa dovranno pensare un po’ più attentamente” a “su quale territorio si trovano quando scendono dall’aereo”.
Gli Stati Uniti pronti a seguire l’Europa
Gli Stati Uniti non vogliono essere da meno rispetto alla “stretta” sui social voluta dall’Ue con il Digital Service Act e dal Regno Unito con l’Online Safety Bill. La candidata dem Kamala Harris, infatti, sostiene la responsabilità delle piattaforme social nel “prevenire l’abuso del diritto alla libertà di parola”, definendo questo diritto un “privilegio” che va regolamentato. Nel 2019, Harris dichiarò a Jake Tapper della CNN che le aziende di social media “stanno parlando direttamente a milioni e milioni di persone senza alcun livello di supervisione o regolamentazione e questo deve finire”.
Dello stesso avviso Tim Walz, candidato alla vicepresidenza nel ticket democratico: secondo il governatore del Minnesota, “non c’è alcuna garanzia di libertà di parola nella disinformazione o nell’incitamento all’odio, e specialmente nella nostra democrazia”. Tutto ciò si collega alla recente dichiarazione della giudice della Corte Suprema Ketanji Brown Jackson, secondo cui il Primo Emendamento starebbe “paralizzando il governo”, pur essendo stato pensato proprio per proteggere le libertà fondamentali degli individui e la democrazia stessa. Il problema di tale approccio, come spiega il Cato Institute, think-tank libertario con sede a Washington, è che “il potere di regolamentare la parola potrebbe essere utilizzato da coloro con cui non sei d’accordo tanto quanto da coloro con cui sei d’accordo”.
Kamala Harris, osserva il giornalista investigativo Matt Taibbi, “non comprende come funziona il Primo Emendamento, il che è scioccante perché ha superato l’esame di Stato. È stata procuratore generale dello Stato della California. Il primo principio della Costituzione è che il Governo non ha alcun ruolo nella libertà di parola. Abbiamo intrinsecamente il diritto alla libertà di parola. È un diritto naturale. Non deriva dal Governo. Non è un privilegio che abbiamo da un’azienda o da un Governo”.
Cambio di approccio
Anche la stampa chiede una stretta sui social. Come nota Taibbi, l’ex Segretario del Lavoro Robert Reich ha pubblicato sul Guardian una guida su come contenere il patron di X, Elon Musk, suggerendo tra l’altro che “le autorità di tutto il mondo dovrebbero minacciare Musk con l’arresto”, aggiungendo con tono ottimista che “le autorità globali potrebbero già essere sulla strada giusta per farlo, come dimostrato dall’arresto di Pavel Durov in Francia il 24 agosto”. Il New York Times, dopo aver pubblicato un articolo a luglio in cui si affermava che “il Primo Emendamento è fuori controllo” ha pubblicato un altro pezzo dal titolo: “La Costituzione è sacra. È anche pericolosa?”. Nel secondo editoriale si parla addirittura di “culto della Costituzione”, come se fosse qualcosa di pericoloso. È evidente come vi sia una tensione crescente tra la protezione delle libertà civili, come la libertà di parola e l’inviolabilità della Costituzione, e i tentativi di regolare o limitare la libertà sui social allo scopo – almeno a parole – di contenere la “disinformazione”, le “fake news” e arginare l’influenza di figure ingombranti come Elon Musk.
Nel recente passato, però, quest’approccio ha prodotto risultati nefasti e si è tradotto in un abuso di potere da parte dei Governi. Il Ceo di Meta, Mark Zuckerberg, ha recentemente ammesso che funzionari di alto livello dell’amministrazione Biden hanno “ripetutamente fatto pressioni” su Facebook affinché “censurasse” i contenuti relativi al Covid-19, inclusi “umorismo e satira”, durante la pandemia, così come lo scandalo del laptop di Hunter Biden. Zuckerberg ha promesso che non permetterà mai più alla sua azienda di essere soggetta a simili pressioni.
Jack Dorsey, ex-CEO di Twitter, ha anche lui ammesso in passato che la piattaforma ha commesso un errore nel bloccare la condivisione dell’articolo del New York Post sulla vicenda del laptop di Hunter Biden, durante le elezioni presidenziali del 2020. Ha riconosciuto che la comunicazione di Twitter su questa decisione è stata “inaccettabile” e ha affermato che bloccare i link senza fornire un contesto adeguato è stato un errore. È questa la lotta alla “disinformazione” che intendono i democratici? O, semplicemente, si vogliono censurare le notizie scomode come un regime autoritario qualsiasi?
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