L’uscita a sorpresa di Mark Zuckerberg, Ceo di Meta e creatore di Facebook, sul fatto che le sue piattaforme social hanno censurato contenuti sensibili e potenzialmente fuorvianti sul Covid-19 su richiesta dell’amministrazione di Joe Biden e della vice e candidata democratica alle presidenziali di novembre Kamala Harris, ha fatto discutere negli Usa e non solo. E ha aperto un ampio dibattito sul tema della libertà d’espressione e sul ruolo dei social network nell’essere decisori pressoché determinanti nell’aprire o chiudere le porte alla circolazione di determinati contenuti.
Il caso
Il dibattito si può leggere anche chiedendosi perché Zuckerberg abbia deciso di parlare con toni tanto chiari in risposta alla richiesta dei Repubblicani della Commissione Giustizia della Camera dei Rappresentanti in materia. E perché abbia deciso di farlo proprio ora, in una fase che vede, da un lato, una critica costante del rivale Elon Musk, paladino libertario della libertà d’espressione incondizionata, alle pratiche di Meta e dall’altro il dibattito accendersi nel mondo sulla scia dell’arresto del Ceo di Telegram, Pavel Durov, in Francia.
Dimostrazione di forza o ammissione di debolezza? La questione non è di lana caprina. Anche perché in questa fase Zuckerberg deve prendere le misure di fronte alla prospettiva che un ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca possa complicare i suoi già non rosei rapporti con le istituzioni americane. Meta ha affrontato, nell’era Biden, la sfida della Federal Trade Commission guidata dalla funzionaria e docente della Columbia Lina Khan, che ha più volte messo sotto torchio l’azienda di Zuckerberg, assieme a gruppi come Amazon, per potenziali violazioni della normativa antitrust.
Zuckerberg ammicca ai Repubblicani
Ora, con fautori di una regolamentazione di Big Tech come il candidato vicepresidente J.D. Vance al fianco di Trump e un’onda politica che identifica Musk, fermo nel sostegno a Trump, come fautore della via “conservatrice” alla comunicazione e Zuckerberg più vicino ai democratici, è possibile che l’apertura dell’imprenditore padre di Facebook sia una mossa di alleggerimento in vista di un possibile Trump 2.0. Ma non finisce qui.
Zuckerberg ha, con la sua mossa, spostato il fuoco delle critiche dalla sua figura a quella del duo Biden-Harris, come ricorda Politico: “Alcuni conservatori si sono schierati attorno alla lettera come prova gradita che il presidente Joe Biden aveva esagerato, una reazione che, a differenza del passato, sembrava assolvere Meta e Zuckerberg dal loro ruolo nel processo”. Bob Latta (deputato conservatore dell’Ohio) e Mariannette Miller-Meeks (la quale rappresenta il Grand Old Party in Iowa) “hanno attaccato l’amministrazione Biden per quello che entrambi hanno definito un abuso di potere, ma nessuno dei due legislatori ha lanciato attacchi particolarmente mirati all’azienda o al suo Ceo”.
Solo pre-tattica e opzioni di copertura in vista di un possibile rilancio del trumpismo di governo? Sarebbe difficile vedere il magnate di Menlo Park muoversi solo per fare pre-tattica. O andare preventivamente a Canossa in una fase in cui la vittoria di Trump a novembre è tutto fuorché scontata. Non va dimenticato che sul tema Zuckerberg, relativamente al caso dei contenuti cancellati o oscurati sul Covid dalla sua e da altre piattaforme, parla in questo caso da una posizione di forza.
Zuckerberg blindato dalla Corte Suprema
A giugno, la Corte Suprema Usa ha infatti chiuso definitivamente con un verdetto favorevole alle società tecnologiche un caso promosso da Eric Schmitt, allora procuratore generale e oggi senatore repubblicano dello Stato del Missouri, nel 2020 contro il governo federale in nome del Primo Emendamento sulla libertà d’espressione.
La causa Murthy vs Missouri, denominata dalla stampa “Missouri vs Biden” citava esplicitamente che “lavorando con giganti dei social media come Meta , Twitter e YouTube per censurare e sopprimere la libertà di parola, comprese informazioni veritiere, relative al COVID-19 , all’integrità delle elezioni e ad altri argomenti, con il pretesto di combattere la disinformazione”.
In primo e secondo grado la sentenza è stata favorevole a Schmitt e al Missouri, sottolineando che le politiche della Casa Bianca “hanno costretto o incoraggiato in modo significativo le piattaforme di social media a moderare i contenuti”, ma nell’ottobre 2023 la Corte Suprema – per due terzi formata da giudici repubblicani – ha revocato l’ingiunzione che prescriveva al governo di non contattare le società titolari delle piattaforme per chiedere moderazione di contenuti.
Con un voto a maggioranza di 6-3, nel giugno scorso la Corte Suprema ha infine cassato la richiesta del Missouri di pressare la Casa Bianca ritenendo necessario, per chiedere un’ordinanza del genere, la dimostrazione dell’esistenza di un danno diretto al querelante sul tema della restrizione alla circolazione dei contenuti su piattaforme private.
Il braccio di ferro continua
La Cnn all’epoca, sottolineò la notizia, passata sotto traccia su molte testate, in maniera chiara: ai sensi del verdetto della Corte Suprema “la Casa Bianca e le agenzie federali come l’FBI potrebbero continuare a sollecitare le piattaforme dei social media a rimuovere i contenuti che il governo considera disinformazione”. E questo, legalmente, protegge Zuckerberg da qualsiasi conseguenza penale delle sue azioni. Tanto più, ricorda Politico, che a luglio “la Corte Suprema ha bloccato le leggi in Texas e Florida che avrebbero impedito alle piattaforme di rimuovere contenuti e bloccare candidati politici in base ai loro punti di vista”.
In sostanza, una chiave di lettura non esclude l’altra. L’ammissione di Zuckerberg sposta l’enfasi politica del discorso sui Dem ma è, di fatto, “a costo zero” per Meta. Non si risolve, invece, il grande dilemma sulla libertà d’espressione e i suoi limiti. E le scelte di una Corte Suprema in cui i giudici vicini ai Repubblicani prevalgono e in cui Trump ha nominato tre dei nove membri attuali mostrano che anche il campo conservatore è tutto fuorché unito nel dare una definizione univoca sull’intromissione governativa in scenari ove priorità diverse, come la tutela della salute pubblica e quella alla libertà di comunicazione, vengono potenzialmente a confliggere. Il braccio di ferro è destinato, dunque, a continuare. E a rappresentare un tema caldo della campagna elettorale Usa.
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