Il caso dell’arresto di Pavel Durov, Ceo di Telegram a Parigi, e le rivelazioni di Mark Zuckerberg, patron di Meta e inventore di Facebook, circa la scelta della sua piattaforma di approvare le richieste di censura di contenuti sul Covid-19 ha aperto un ampio e diffuso dibattito sul tema della libertà d’espressione nel contesto politico e sociale occidentale.
I riots britannici e gli arresti a strascico
L’occasione offre lo spunto per discutere di un altro episodio a cui non è stata data adeguata attenzione mediatica ma che è indicativo della complessità e delle contraddizioni che le discussioni sul tema vedono emergere: il caso del giro di vite delle autorità giudiziarie britanniche sul “discorso d’odio” in rete durante i riots delle scorse settimane.
L’ondata di violenza anti-migranti scoppiata dopo che a Southport, nell’Inghilterra meridionale, il 30 luglio scorso tre bambini sono stati uccisi a coltellate da Axel Muganwa Rudakubana, 17enne nativo di Cardiff, in Galles, e figlio di una coppia ruandese di immigrati regolari e il ruolo delle fake news diffuse online hanno spinto le autorità britanniche a una reazione dura e le cui conseguenze sono tutte da valutare.
Gli “odiatori” e la legge britannica
Le autorità britanniche hanno provveduto a un’ampia campagna di arresti contro uomini e donne che durante i riots hanno pubblicato contenuti di incitamento all’odio e alle proteste cavalcando l’onda delle fake news diffuse nei giorni delle proteste. A partire, ovviamente, dalla madre di tutte le bufale che l’ultra-destra ha fatto sua, ovvero la voce secondo cui Rudakubana fosse in realtà un immigrato clandestino macchiatosi di un atroce delitto per l’omessa vigilanza del nuovo governo di Keir Starmer.
L’esecutivo laburista ha applicato con forza l’Online Safety Act promosso dall’ex maggioranza del Partito Conservatore nel 2023 che ha stretto nettamente le maglie del controllo dell’autorità pubblica e giudiziaria sull’hate speech online. Il quale, lo ricordiamo, è reato nel Regno Unito da oltre un ventennio, dato che la provvisione di legge era già stata introdotta da Tony Blair col Communications Act del 2003.
L’accusa mostra i nomi degli arrestati
La differenza col passato è il fatto che agli arresti e alle condanne-lampo per crimini d’odio online tramite messaggi e comunicazioni, in questo caso, è stato dato ampissimo risalto pubblico dalle stesse autorità. Il Guardian ha citato i nomi dei primi due condannati: “Jordan Parlour, 28 anni, è stato condannato a 20 mesi di carcere dopo essersi dichiarato colpevole di incitamento all’odio razziale tramite post su Facebook in cui incitava a un attacco a un hotel di Leeds” e che aveva ricevuto soltanto sei “mi piace”. Al contempo, nella città di Northampton, “Tyler Kay, 26 anni, è stato condannato a tre anni e due mesi di prigione per aver pubblicato su X post che chiedevano deportazioni di massa e incendi agli hotel che ospitavano richiedenti asilo”.
Al netto dei discorsi condannabili e esecrabili contenuti in questi messaggi, desta scalpore che a dare informazioni tanto dettagliate sia stato il Crown Prosecution Service, l’autorità di pubblica accusa britannica, che ha citato Parlour, Kay e decine di altri arrestati e processati che si sono dichiarati colpevoli nelle settimane dopo le proteste.
La mossa contro il discorso d’odio online si inserisce in una serie di pubbliche dichiarazioni dell’autorità d’accusa sui nomi e cognomi di centinaia di arrestati, con tanto di età e città d’origine, associati ai reati loro contestati.
Il dilemma della libertà di espressione
E se il giro di vite sulle proteste violente era prevedibile, risulta complesso capire in che modo la fattispecie dell’istigazione all’odio online possa essere classificabile come complementare alle proteste condotte sul campo e che hanno causato danni e feriti. Specie se tali messaggi sono stati postati da coloro che poi a tali proteste non hanno fisicamente partecipato.
In particolare, è su tre punti che vale la pena aprire la discussione: innanzitutto, se il portato criminale di un messaggio pubblicato in una piattaforma online debba essere valutato in quanto tale o in proporzione al peso dell’utente che l’ha promosso e della visibilità del messaggio stesso; in secondo luogo, se aprire il carcere a coloro che si macchino di reati d’opinione non rischi di creare un precedente potenzialmente dannoso per la moderazione di contenuti a rischio; infine, si corre il rischio di un’inversione dell’onere della prova a carico dell’imputato circa il fatto che le sue dichiarazioni siano direttamente o meno correlate alla commissione di reati da parte di terzi.
Va detto, le autorità britanniche si sono trovate all’angolo quando hanno visto il proliferare di messaggi francamente inaccettabili e che definire espressione del diritto di “libertà” sarebbe quantomeno fuorviante. E la scelta di pubblicare su X nomi e cognomi dei colpevoli appare una risposta al fatto che proprio la piattaforma di Elon Musk e il suo proprietario siano stati vettori quasi incontrollabili di molte delle fake news anti-migranti. Ma il problema resta, ed è cogente.
Le domande aperte
Il diritto alla libertà d’espressione tutela anche la libertà di cavalcare opinioni controverse e false? La domanda in questione non ha risposta quando a esser messa in discussione non è tanto una palese bufala, come quella che voleva il delitto di Southport imputabile a un migrante irregolare, quanto un caso che non si può delegare a fact-checker terzi essere vero o falso. Il caso Facebook, con la censura dei contenuti sul caso Hunter Biden, insegna. Inoltre, perché i legislatori si ostinano a colpire le offese online in maniera diversa da quella con cui le ordinarie punizioni per reati come la diffamazione già prevedono?
Nuove fattispecie di reato rischiano di confondere la soglia tra ciò che sia lecito e illecito dire. E di nuovo, chi decide di tale liceità? E al contempo, è corretto punire i singoli a livello penale per i loro contenuti più estremi o bisognerebbe iniziare ad alzare l’asticella verso la responsabilità delle piattaforme in maniera tale che l’onere della mancata moderazione di contenuti che sono stati provati esser risultati fonte di reato ricada innanzitutto su di loro?
Le questioni aperte sono molte e di difficile scioglimento. Certamente, pensare che la soluzione sia la messa alla berlina dei singoli difficilmente risolverà il problema. E potrebbe finire per polarizzare ulteriormente le già divise società occidentali.
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