Media “è” potere: da Mussolini ai giorni nostri, quanto conta la conquista del consenso

ago 17, 2024 0 comments


Di Paolo Arigotti

Propaganda e costruzione del consenso furono due componenti imprescindibili per il consolidamento del regime fascista. Benito Mussolini proveniva dal mondo del giornalismo e della carta stampata – del quale avrebbe continuato a interessarsi anche dopo la conquista del potere – ma soprattutto aveva approfondito alcuni principi fondamentali delle opere di Gustave Le Bon e Edward Bernays, Psicologia delle folle (1895) e Propaganda (1928), alle quali avrebbe attinto anche un altro grande propagandista di regime: Joseph Goebbels.

Adunate oceaniche e discorsi di propaganda (si stima che ci vorrebbero 35 volumi per raccogliere tutti gli interventi pubblici del dittatore), culto della personalità, controllo dei media e del cinema (che Mussolini definì “l’arma più forte”), per il tramite della censura e vigilanza sugli organi d’informazione (allora giornali e radio) sarebbero state alcune delle leve sfruttate dal regime fascista – come del resto da quelli stalinista e nazionalsocialista – per convincere le masse ad aderire all’ideologia e ai programmi della dittatura.

In Italia, inoltre, si sarebbe fatto ampio ricorso al culto della romanità antica, con l’obiettivo di persuadere il popolo italiano che la discendenza dall’impero che conquistò buona parte del mondo conosciuto, avrebbe attribuito alla nazione “ di diritto” un “posto al sole”. Emblematico il discorso del 9 maggio 1936, quando rivolto alla folla radunata sotto il balcone di Palazzo Venezia, il tronfio dittatore – celebrando la conquista dell’Abissinia – annunciò la rinascita dell’impero sui colli fatali di Roma, toccando forse il momento più alto del consenso per il regime. Commentando l’episodio, lo storico Gerald Steinacher scrisse che[1]: “l’Italia fu sommersa da un’ondata di euforia nazional-fascista. Nessun’altra guerra a cui l’Italia aveva partecipato dopo il raggiungimento dell’unità era stata così popolare e così massicciamente esaltata dalla propaganda”. Non a caso, assieme all’anniversario della marcia su Roma, indicata come l’inizio della “Rivoluzione fascista” (che in realtà non c’era mai stata), la fondazione dell’impero sarà negli anni a venire un appuntamento fisso per le celebrazioni del regime.

Quando Mussolini teneva un discorso, quasi sempre veniva diramato, tramite radio, altoparlanti e cinegiornali, in tutto il Paese (in alcuni casi anche all’estero), contribuendo ad alimentare il mito del Duce, che con la sua voce poteva arrivare ovunque. La stessa immagine pubblica del dittatore, quello che con terminologia moderna potremmo definire il “look”, avrebbe conosciuto nel tempo un’evoluzione. Se fino ai primi anni Trenta le apparizioni pubbliche del Duce lo videro quasi sempre in abiti civili, nel corso del decennio Mussolini si fece sempre più marziale, indossando divise o uniformi, per preparare il Paese alle avventure belliche e all’idea del combattimento. La stessa scelta del trasferimento, avvenuto nel 1929, della sede del capo del Governo a Palazzo Venezia (da Palazzo Chigi) fu strategica, per collocare il dittatore nella cornice di una piazza più estesa, al centro del quale quel balcone che sarebbe stato il palcoscenico ideale per le adunate di regime.

La propaganda (ora come allora) doveva suscitare nelle masse una risposta emotiva, piuttosto che razionale, ai fatti e al regime politico, con tecniche che non saranno solo appannaggio dei totalitarismi del Novecento, ma che saranno utilizzate anche dalle democrazie, specialmente (ma non esclusivamente) in occasione di crisi o conflitti. L’intuizione di Mussolini di avvalersi delle più moderne (per l’epoca) tecnologie dell’informazione e della comunicazione si sarebbe rivelata molto efficace. Tutto veniva curato nel minimo dettaglio e il suo esempio fu seguito da diversi “colleghi” dittatori.

Per poter realizzare questo disegno era indispensabile garantirsi il controllo assoluto dei media: non a caso tra i primi provvedimenti varati dal nascente regime annoveriamo quelli dedicati alla stampa e all’informazione. Costanzo Ciano, insediatosi nel 1924 alla guida del ministero delle Poste e telegrafi (poi rinominato della Comunicazione), si diede immediatamente da fare per costituire anche in Italia – sul modello della BBC inglese – un monopolio pubblico sulle emissioni radiofoniche, che consentisse l’affidamento delle trasmissioni a un unico ente politicamente affidabile. Promosse la nascita dell’URI (Unione Radiofonica Italiana), società nella quale confluirono le aziende operanti nel settore, che nel 1924 si aggiudicò la concessione esclusiva delle frequenze. Per decreto governativo, l’URI, che nel 1927 divenne EIAR (ente italiano per le audizioni radiofoniche), era il solo soggetto autorizzato a diffondere notizie di interesse pubblico, filtrate dall’unica agenzia ufficiale di informazione, la Stefani, da sempre collegata al Governo, e affidata sempre nel 1924 a Manlio Morgagni, uomo di assoluta fiducia del Duce, proveniente dal Popolo d’Italia. In questo modo la radio divenne uno dei principali megafoni della propaganda di regime, mentre nel corso degli anni Trenta fu vietata la circolazione della stampa straniera e l’ascolto di radio non italiane, che divenne addirittura reato con lo scoppio della guerra.

Normalizzate la radio e l’agenzia ufficiale d’informazione, restava il “problema” dei giornali, che fu presto risolto con la legge sulla stampa, entrata in vigore (dopo essere stata “congelata” per circa un anno) sempre nel 1924, praticamente all’indomani del delitto Matteotti. Nel 1925 l’insieme delle disposizioni sarebbero confluite nella legge n. 2307 del 31 dicembre[2], che praticamente sancì la fine della libertà di stampa, mentre con le leggi fascistissime del 1926 furono messe a tacere le ultime voci libere e soppressi tutti i giornali (e partiti) di opposizione.

A partire da quel momento, tutte le voci critiche furono costrette a operare in clandestinità e per coloro che avessero contribuito alla stampa e/o alla diffusione di fogli illegali c’erano il confino o il carcere.  Nell’arco di pochi mesi si assistette a un mutamento nella direzione e nelle redazioni delle principali testate – compresi La Stampa e il Corriere della Sera – le cui proprietà passarono in mani fidate per il fascismo. Tutti i giornalisti furono obbligati all’iscrizione in un apposito albo, dal quale erano esclusi gli elementi politicamente non allineati, e le redazioni dovevano rispettare le direttive sull’informazione diramate dagli organi di regime (le famose “veline”). Sequestri e sanzioni penali colpivano chiunque che non avessero rispettato gli ordini.

Il compito di vigilare sull’informazione di regime venne inizialmente affidato all’ufficio stampa del capo del Governo, successivamente istituzionalizzato con la creazione di un sottosegretariato alla Stampa e propaganda (sul modello tedesco), poi divenuto ministero, ribattezzato nel 1937 come della Cultura popolare (Minculpop). L’incaricò fu attribuito a Galeazzo Ciano, genero del Duce, fino al suo passaggio al dicastero degli Esteri.

Il regime non si occupò solo di radio e carta stampata. Per il controllo del cinema fu determinante la creazione dell’Istituto Luce (L’Unione Cinematografica Educativa), nata come società privata nel 1924, e poi divenuto ente morale di diritto pubblico, con lo scopo di «diffusione della cultura popolare e della istruzione generale per mezzo delle visioni cinematografiche, messe in commercio alle minime condizioni di vendita possibile, e distribuite a scopo di beneficenza e propaganda nazionale e patriottica»[3]: la gran parte dei filmati che possediamo dell’epoca fascista sono quelli curati dall’Istituto, che si occupò anche dei cinegiornali, che precedevano tutti gli spettacoli cinematografici.

E non mancò l’apporto degli intellettuali e degli uomini di scienza e cultura, purtroppo in taluni casi anche riguardo il varo delle infami leggi razziali[4]. Il 21 aprile 1925, giornata dedicata alla celebrazione del Natale di Roma, il Popolo d’Italia pubblicava il «Manifesto degli intellettuali fascisti agli intellettuali di tutte le nazioni», che sotto la direzione del filosofo Giovanni Gentile, certificava l’adesione del mondo culturale (non tutto[5]) al regime, che poi avrebbe ricevuto una sorta di istituzionalizzazione con la nascita nel 1929 dell’Accademia d’Italia, organismo che col pretesto della valorizzazione della cultura, mirava più che altro alla sua strumentalizzazione per fini politici.

Per comprendere appieno l’importanza della strategia di controllo dei media, voluta da un dittatore probabilmente molto ben consigliato[6], occorre tener conto anche del contesto. L’epoca di cui parliamo, gli anni Venti e Trenta del secolo scorso, è ancora caratterizzata da un importante tasso di analfabetismo, specie nelle aree rurali e periferiche. In tal senso, il controllo non solo dello scritto, ma soprattutto delle immagini e delle coreografie esercitava un fortissimo impatto sulle masse, contribuendo al consolidamento del consenso e della fiducia. Tra i maggiori artefici degli eventi ufficiali del regime (talvolta ai limiti del ridicolo) e delle campagne contro le (presunte) pratiche “borghesi” – come l’uso del “voi”, l’abolizione della stretta di mano o la bonifica linguistica – troviamo Achille Starace, che per circa otto anni occupò la carica di segretario del PNF.

La retorica bellicista del regime, sviluppata soprattutto a partire dalla metà degli anni Trenta, affondava le sue radici in quella della Grande guerra, che era stata abilissima nell’orientare una pubblica opinione nettamente contraria ad accettare la discesa nel campo di battaglia. Come ricorda lo storico Mario Isnenghi, in un pezzo intitolato Iconografia della stampa fascista[7], era stato in quella fase (parliamo del 1914 e 1915) che probabilmente era maturata nel futuro Duce la consapevolezza della funzione etica e pedagogica della propaganda ufficiale, che per essere efficace doveva necessariamente passare per un controllo centralizzato, con un ampio ricorso a una tecnica nota come finestra di Overton[8].

Una volta che si comprende il meccanismo, associato all’idea (di Gustave Le Bon) che le masse ragionano in modo diverso dai singoli individui, e che le stesse si possono trascinare nella direzione voluta, il gioco diviene assai più semplice di quanto potrebbe sembrare.

Un altro principio della propaganda cui il Fascismo, grazie ai media allineati, seppe sfruttare con efficacia fu quello definito della orchestrazione, che consiste nel ripetere pochi concetti in continuazione, sino a inculcarli nella mente delle persone. Come diceva spesso Josef Goebbels, persino la più grande menzogna, ove ripetuta incessantemente, finisce per trasformarsi in verità, convincendo persino i più recalcitranti, che vengono in un certo senso “assorbiti” dal pensiero dalla massa (cd. principio di unanimità). A differenza della Germania nazista o dell’URSS staliniana, nell’Italia fascista, almeno sino alla metà degli anni Trenta, sopravvisse qualche spazio per esprimere posizioni differenti, ma era pur sempre il regime a fissare i confini entro i quali era ammesso muoversi, attuando un abile escamotage che serviva per dare l’illusione dell’esistenza di un minimo di dialettica interna [9].

Parlando di tecniche di propaganda e persuasione si incorre spesso nell’errore (se non nell’illusione) che siano appannaggio esclusivo dei regimi autocratici o dittatoriali. Niente di più sbagliato.

Basterebbe ascoltare o leggere Pier Paolo Pasolini. Se ai tempi del Fascismo il controllo dei media veniva garantito con le armi della censura e della repressione, caduto il regime e sancita per Costituzione la libertà di espressione e di stampa (art. 24), alcuni di quei meccanismi si sono evoluti e fatti più sottili, ma non per questo meno pervasivi, e con un crescente contributo del settore privato.

Infatti, se nei totalitarismi novecenteschi il ruolo dello stato era preponderante – pur beneficiando della collaborazione di intellettuali e imprenditori – oggi diviene sempre più determinante quello del potere finanziario privato, a cominciare dai gruppi multinazionali, rafforzatisi ulteriormente con l’avvento della televisione prima e della rivoluzione elettronica e digitale poi.

Partiamo dalle riflessioni di Pasolini: purtroppo il grande scrittore e regista non ha fatto in tempo a dire la sua su Internet e Social network, ma una serie di intuizioni possono essere assunte come un utile paradigma, al pari delle riflessioni che seguono.

Sperimentata negli Stati Uniti e in Europa nel corso degli anni Trenta, la televisione “prese il volo” negli anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale. Nel 1954 iniziava le sue trasmissioni anche la RAI (Radio Audizioni Italia), nata sulle ceneri del disciolto EIAR, che conobbe un grande sviluppo negli anni del boom economico, soppiantando la radio come media preferito dagli italiani. Fu Pasolini[10] a intravvedere nel nuovo mezzo di comunicazione di massa uno straordinario strumento di omologazione degli individui, oltre a criticarne l’eccessiva propensione a incoraggiare il consumismo e il desiderio di beni materiali, ricorrendo a un linguaggio da lui definito fisico mimico. Diversa l’opinione di Umberto Eco[11], che sottolineava il ruolo avuto dalla televisione per la diffusione della cultura e della lingua italiana.

In realtà, le posizioni di questi due giganti della nostra cultura non sono antitetiche. Se il ruolo avuto dal nuovo media nella acculturazione delle masse non può essere negato, il suo utilizzo per finalità di massificazione del pensiero e dei modelli di vita (la manipolazione) è altrettanto difficile da contestare.

Pensiamo alla cosiddetta televisione spazzatura, che propone programmi di scarso spessore (molto diversi da quelli cui probabilmente alludeva Eco), che potrebbe essere letto anche come un livellamento verso il basso, magari per annullare la forza della cultura e del pensiero critico. Si badi bene che nessuno contesta il diritto di svagarsi e passare qualche ora del proprio tempo in letizia e leggerezza, il problema si pone nel momento in cui certi format assumono una funzione differente e molto più pervasiva.

E se ai tempi del Fascismo la finalità essenzialmente politica che stava dietro il controllo dei media era di tutta evidenza, oggi che la titolarità e il controllo è passato in gran parte in mano ai privati, la manipolazione assolve sempre di più a ulteriori obiettivi, di carattere non solo politico, ma pure economico e commerciale, inteso non solo come pubblicità, ma anche per indirizzare l’opinione pubblica verso idee, pratiche e/o abitudini in linea con gli interessi di chi controlla la comunicazione.

Il principio è sempre lo stesso. La demonizzazione non deve mai riguardare il mezzo, bensì l’utilizzo che ne viene fatto. E se il potere, sia questo pubblico o privato, esercita direttamente o indirettamente un’indubbia influenza, è compito dello spettatore svolgere un ruolo attivo, e non di mero destinatario del flusso di informazioni. E se ai tempi del Fascismo ci si poteva (forse) appellare alla scarsa cultura per giustificare una certa passività della pubblica opinione, oggi la scusa non regge più.

Come scrive Giovanni Sartori se “in passato il dittatore rovesciava la democrazia, il passaggio all’autocrazia era manifesto, rivoluzionario. Oggi questo processo avviene senza alcuna rivoluzione, senza neppure bisogno di riforme.”

A buon intenditor…

FONTI

Gugliemo Ferrero, Potere, Ibex edizioni, 2023

Gustave Le Bon, Psicologie delle folle, Ibex edizioni, 2021

Edward Louis Bernays, Propaganda. Della manipolazione dell’opinione pubblica in democrazia, Fausto Lupetti Editore, 2008

Gianluca Magi, Goebbels. 11 tattiche di manipolazione oscura, Piano B, 2021

Romano Canosa, La voce del Duce. L’agenzia Stefani: l’arma segreta di Mussolini, Mondadori, 2002

Emilio Gentile, Storia del Fascismo, Laterza, 2022

Emilio Gentile, Il culto del littorio, Laterza, 1993

Renzo De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso (1929-1936), Einaudi, 1997

Giovanni Sartori, Democrazia, Treccani, 2023


[1] www.museodellaguerra.it/wp-content/uploads/2017/09/Gerald-Steinacher_75-90.pdf.

[2] www.normattiva.it/atto/caricaDettaglioAtto?atto.dataPubblicazioneGazzetta=1926-01-05&atto.codiceRedazionale=025U2307&tipoDettaglio=originario&qId=

[3] it.wikipedia.org/wiki/Istituto_Luce

[4] it.wikipedia.org/wiki/Manifesto_degli_scienziati_razzisti

[5] Come risposta, poco dopo venne ripreso da alcuni quotidiani il «Manifesto degli intellettuali antifascisti», curato da Benedetto Croce, uno dei pochi intellettuali (oltre che senatore del Regno) che conservò un minimo libertà di critica e dissenso durante il regime.

[6] Due nomi per tutti: Margherita Sarfatti e Giovanni Gentile

[7] Isnenghi, M. (1977), «Iconografia della stampa fascista», Belfagor, Vol. 32, No. 2, pp. 347-348.

[8] www.nichelino.com/news/index.php/approfondimenti/33-etica/2862-la-finestra-di-overton-spiega-come-si-manipolano-le-masse

[9] Forno, M. (2006), «Aspetti dell’esperienza totalitaria fascista. Limiti e contraddizioni nella gestione del

“Quarto potere”»

[10] quattrocentoquattro.wordpress.com/2014/03/10/pasolini-al-corriere-della-sera-3-quello-che-rimpiango/#:~:text=Come%20accade%20il%209%20dicembre,che%20per%C3%B2%20restava%20lettera%20morta.

[11] www.arabeschi.it/umberto-eco-sulla-televisione-scritti-1956-2015/


FONTE: https://it.insideover.com/media-e-potere/media-e-potere-da-mussolini-ai-giorni-nostri-quanto-conta-la-conquista-del-consenso.html

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