Nonostante gli accordi di pace, le tante convenzioni e i numerosi trattati di diritto internazionale umanitario, nonostante le promesse dei leader mondiali, il pianeta è costellato di conflitti e guerre di ogni tipo. Interni ed esterni (ovvero che coinvolgono più stati). Tanti quanti non se ne vedevano dalla Seconda Guerra Mondiale. A volte differiscono in modo considerevole per intensità , frequenza e forma. Questo, spesso, fornisce dati difficilmente confrontabili a chi cerca di analizzare i numeri delle guerre. Secondo alcune stime (aggiornate a dicembre 2023) pare essere il Myanmar il paese dove ci sono gli scontri più violenti: qui i conflitti sono estremamente “frammentati” a causa delle decine di piccole milizie che cercano di contestare il governo centrale dopo il colpo di stato del 2021. Al secondo posto c’è la Siria a causa di molteplici conflitti che continuano a verificarsi all’interno dei suoi confini. Nel 2024 la situazione potrebbe cambiare. E in peggio, vista l’impennata degli scontri a Gaza, in Ucraina, in Sudan o in altri paesi [1].
L’Indice dei conflitti redatto periodicamente da ACLED mostra che dei 234 paesi e territori coperti dall’analisi, ben 168, la stragrande maggioranza, ha vissuto almeno un episodio di conflitto nel 2023. L’aggiornamento 2024 dell’indice dei conflitti ACLED ha tenuto conto dei livelli di conflitto in base a quattro indicatori chiave: mortalità , pericolo per i civili, diffusione geografica del conflitto e frammentazione dei gruppi armati. Utilizzando questi fattori, i livelli più alti si riscontrano in una cinquantina di paesi classificati come “estremi”, “alti” o “turbolenti”. Oltre 147mila gli “eventi” di conflitto registrati e almeno 167.800 le vittime. Rappresentano il 97 per cento di tutti gli eventi di conflitto registrati negli ultimi 12 mesi. Ancora una volta, pare che sia il Myanmar il più violento in assoluto: mantiene la sua posizione come il più “frammentato” a causa delle decine di piccole milizie che cercano di contestare il governo centrale dopo il colpo di stato del 2021. Al secondo posto c’è la Siria a causa di molteplici conflitti che continuano a verificarsi all’interno dei suoi confini. Ma nel 2024 la situazione potrebbe essere peggiore vista l’impennata degli scontri a Gaza, in Ucraina, in Sudan o in altri paesi [1].
A volte si confrontano questi aspetti con altri. Come la spesa destinata alla promozione della pace: solo 49,6 miliardi, una briciola rispetto alle somme destinate a spese militari. O spesa per la sanità o l’istruzione. C’è chi parla degli effetti geopolitici che hanno o potrebbero avere queste guerre. Un altro modo per classificare guerre e conflitti armati è valutare l’impatto economico che hanno: secondo l’Institute for Economics and Peace (IEP), nel 2019 il costo delle guerre ammontava a 14,4 trilioni di dollari. Circa 5 dollari al giorno per ogni persona sul pianeta. Una spesa insostenibile se si pensa che, secondo i dati della Banca Mondiale, sono 689 milioni le persone che vivono con meno di 1,90 dollari al giorno, circa il 9 per cento della popolazione mondiale [2]. E la situazione peggiora giorno dopo giorno. A volte si confrontano questi aspetti riguardanti le guerre con altre. Come la spesa destinata alla promozione della pace: solo 49,6 miliardi, una briciola rispetto alle somme destinate a spese militari. O spesa per la sanità o l’istruzione. C’è chi parla degli effetti geopolitici che hanno o potrebbero avere queste guerre.
[1] Global Peace Index, Institute for Peace and Economics
[2] Vedi sopra
[3] https://www.worldbank.org/en/topic/poverty/overview
Quasi sempre, la valutazione della gravità di un conflitto (e la posizione in una qualche graduatoria) richiede, però, un approfondimento: il conflitto in Palestina copre quasi tutti i suoi territori e, quindi, è considerato il conflitto più “diffuso”. Negli ultimi mesi, dopo l’invasione di Israele nella Striscia di Gaza, sono cambiati gli equilibri che hanno caratterizzato questa guerra per decenni. Da ottobre 2023, la violenza degli scontri ha subito un’impennata spaventosa. Lo stesso dicasi per altre guerre che possono apparire “in letargo” sebbene attive da decenni. Guerre come quella tra India e Pakistan. Anche il Messico continua ad essere un paese pericoloso: i suoi abitanti sono spesso presi di mira dai cartelli della droga. Guardando ai numeri, l’Ucraina rimane uno dei paesi con il maggior numero di vittime negli ultimi mesi: nel 2023, entrambi gli eserciti, sia sul versante ucraino che su quello russo, hanno perso decine di migliaia di combattenti. Ma a partire dal 7 ottobre, a far registrare il maggior numero di vittime complessive è stato il conflitto israelo-palestinese nella Striscia di Gaza.
Tra i paesi nei quali sono in corso conflitti violenti, diversi si trovano in Africa (Nigeria e Sudan). In Sudan la situazione continua a peggiorare: le uccisioni di massa sono una caratteristica chiave di questo conflitto. Qui spesso non sono disponibili dati attendibili. Una carenza di dati ufficiali che spesso rende difficile anche valutare la gravità della situazione. Tre paesi si trovano in Medio Oriente (Palestina, Yemen e Siria): in questa zona è da sottolineare l’esistenza dei problemi che incidono sullo sviluppo della regione ormai da decenni. Anche secondo questi studi è il Myanmar il paese asiatico più colpito. È qui che sono state registrate le maggiori criticità (almeno fino allo scorso anno). Anche in America non mancano le guerre: quattro dei dieci luoghi estremamente violenti si trovano in America Latina (Messico, Brasile, Colombia e Haiti). Interessante notare che, fatta eccezione per Haiti, le altre sono tutte democrazie ed economie di mercato in genere ritenute stabili. A causare scontri e destabilizzazione sono bande criminali, autorità contestate, corruzione e violenza contro i civili. In questi paesi non esistono grandi guerre tradizionali, ma piccoli conflitti multipli, mortali e pervasivi. Continuano a essere il fattore più persistente dell’instabilità nei paesi in via di sviluppo e in quelli più sviluppati.
Una caratteristica fondamentale di questi conflitti è il numero di gruppi armati e i loro programmi: diverse migliaia di milizie e bande operano in questi conflitti e i loro obiettivi sono spesso l’autorità e il controllo locale. Non cercano di governare, di lottare per le categorie più deboli, o di trasformare il sistema politico per renderlo più democratico, giusto o rappresentativo. Il loro unico obiettivo è la conquista del potere e il controllo del territorio. E la violenza è lo strumento più efficace per ottenere questi obiettivi.
Tutti i leader mondiali sbandierano promesse di pace e stabilità . La verità è che solo 15 paesi hanno fatto registrare miglioramenti nella loro classifica dell’indice ACLED riferito al quinquennio 2019-2023. Altri 16, al contrario, mostrano un peggioramento dei livelli di conflitto. Poco più di una decina di paesi sono rimasti stabili nelle categorie con livello di conflitto “estremo” o “alto”, senza alcun cambiamento tra il 2019 e il 2023. Complessivamente, dei 50 paesi classificati in cima all’indice ACLED, oltre la metà vivono situazioni di conflitto prolungato o peggiorate rispetto al 2019. Nei sei mesi tra l’aggiornamento di metà anno dell’indice ACLED (luglio 2023) e la fine dell’anno, otto paesi hanno visto un intensificarsi dei livelli di conflitto: tre paesi – Palestina, Haiti e Sudan – sono entrati nella categoria dei paesi in cui è in corso un conflitto estremo.
Uno degli errori più diffusi quando si leggono questi numeri è considerare questi conflitti come eventi lontani. Questo fa sì che spesso sono percepiti come estranei. Raramente si tiene conto del fattore umano. Delle conseguenze che ha per la popolazione comune vivere in un paese in guerra. Eppure, a livello globale, una persona su sei vive in un’area in cui si registra un conflitto attivo. Una sorta di distacco, di indifferenza che negli ultimi anni sono aumentati. In parte questo è stato dovuto al nuovo modo di fare la guerra: molti paesi (si pensi alle missioni di pace di qualche anno fa e alla situazione, oggi, in Ucraina) hanno deciso di non mandare più i propri soldati a combattere per “guerre di pace” (un controsenso in termini). La maggior parte di loro si limitano a inviare armi e armamenti. O, in alcuni casi, a combattere a distanza utilizzando i droni. Questo rende difficile anche a chi mette la firma di una spedizione di missili o a chi preme il grilletto comprendere le conseguenze che ha il proprio gesto. Rende difficile comprendere quali sono le conseguenze delle guerre.
Il fattore umano
Come dicevamo, ciò che è cambiato è il modo di fare la guerra. In questo, parte delle responsabilità ricade sui media: a volte gestiscono la comunicazione in un modo che allontana (e non poco) dalla realtà dei conflitti armati. Molte volte non consentono al proprio pubblico di comprendere le reali conseguenze di un conflitto armato sulla popolazione civile. E quando lo fanno, spesso si limitano a fredde analisi statistiche: si parla del “numero” dei morti o dei feriti. Quasi mai i lettori o gli spettatori sono portati a pensare che le vittime di queste guerre non sono “numeri”: sono persone, esseri umani, uomini, donne e soprattutto bambini. Un modo per sfuggire all’obbligo di spiegare ai lettori quali sono conseguenze umane e sociali che queste guerre hanno sulla popolazione. E sui più piccoli.
Come Aya e Lubna due bambine che oggi hanno rispettivamente 7 e 6 anni e sono ospiti di un campo profughi in Grecia. Qualche anno fa sono state costrette a lasciare la propria casa e il proprio paese per fuggire dalla guerra. “Ricordo Aleppo – dice Aya – Ricordo tutta la famiglia riunita in casa nostra. Ma poi sono cominciate le bombe e siamo partiti”. Un viaggio lungo e pericoloso che le ha portate ad attraversare molti paesi in due continenti. Le loro menti sono piene di ricordi di bombe e di morti. E delle difficoltà che si devono affrontare quando si è costretti a vivere in un campo profughi.
Anche i ricordi di Soswil sono lo specchio delle difficoltà che comporta vivere in questi campi. Soswil è una ragazza irachena. All’inizio della guerra è stata costretta a fuggire. Si è nascosta con la famiglia in un villaggio (ma senza il padre: “era in guerra a combattere per noi”). Quando i membri dell’ISIS li hanno raggiunti anche in quel villaggio, hanno separato i bambini, le donne e gli uomini. Poi hanno preso le ragazze e hanno detto “facciamo qualcosa con le ragazze”. Ma uno dei capi dell’ISIS ha detto: “No, sono nelle mie mani, quindi non toccatele”. Lei e le altro sono state portate in una casa. Sono state lasciate lì per tre giorni, rinchiuse senza cibo né acqua. Per chi vive in una bella casa, in un paese occidentale magari servito da servizi porta a porta che non rendono necessario nemmeno alzarsi dal divano per ordinare ciò che si vuole, per chi d’estate ha un frigorifero pieno di bevande fresche, non è facile immaginare cosa significa cercare di sopravvivere per tre giorni senza acqua col clima arido che caratterizza alcune zone dell’Iraq. Soswil e alcune ragazze sono riuscite a sopravvivere quanto bastava per scappare. Si sono unite ai soldati del PKK. In seguito, grazie all’aiuto di alcuni trafficanti, sono arrivate in Turchia, a Siirt. Da qui, si sono dirette al confine con la Grecia. Ma mentre cercavano di raggiungere l’Europa su un barcone di quelli che spesso vediamo nei notiziari dei TG, la guardia costiera le ha intercettate. Purtroppo il barcone è affondato. Solo metà di loro si sono salvate. É stata a lungo in un campo profughi di Nea Kavala (nel nord della Grecia). Ma anche qui la vita non è stata facile: “A volte non avevamo nulla da mangiare, ed era sempre pericoloso per noi” ha detto Soswil, che ha raccontato che nel campo erano frequenti gli scontri con i rifugiati musulmani.
In cima alla lista dei paesi in guerra c’è il Myanmar, un tempo noto come Birmania. Tra i motivi di scontro ci sono le tensioni tra il governo e il popolo dei Rohingya. Le persecuzioni di questa minoranza etnica hanno origini lontane. Ma le conseguenze su uomini, donne e bambini oggi sono visibili come non mai. Nel 1982 una legge sulla cittadinanza ha escluso i Rohingya dai gruppi etnici riconosciuti del Myanmar [1]. A decine, centinaia di migliaia, sono stati spinti al confine e costretti con la forza a lasciare il paese. Oggi molti di loro sono apolidi, senza diritti e senza le protezioni che sono normali per chi è cittadino di un paese [2]. Dal 2017, la situazione è peggiorata ulteriormente. Oggi è un’emergenza umanitaria che alcuni hanno equiparato ad un genocidio, con stupri di massa e diversi casi crimini contro l’umanità [3]. Più di 730 mila Rohingya sono stati costretti a lasciare le proprie case. Tra loro anche 400 mila bambini, “indesiderati” sia dai propri connazionali che in Bangladesh, dove si sono rifugiati. Quelli di loro che hanno cercato di tornare in Myanmar hanno incontrato enormi problemi: da un lato il governo del Myanmar continua a negare la legittimità del diritto del popolo rohingya di vivere in Myanmar. Dall’altro il Bangladesh ha detto di non potersi più fare carico di loro. Una situazione umanitaria complessa che ha profonde conseguenze sotto il profilo sociale, fisico e umano. Come essere costretti a vivere sapendo di non essere parte di nessuna nazione (sono in assoluto il gruppo di apolidi più numeroso, secondo l’UNHCR). L’impatto di tutto ciò sulla salute fisica e mentale di bambini e adolescenti è devastante [4]. Cosa vuol dire per una persona essere apolide? Significa non esistere per nessuno Stato: non avere una identità certa, non poter avere un lavoro regolare, niente assistenza sanitaria, non poter avere una casa e, per un bambino, spesso anche non poter andare a scuola. Chi è apolide vive nella paura di essere fermato dalle forze dell’ordine: in questo caso non possono dimostrare la propria identità . È così che sono costretti a vivere anche molti dei 600 mila Rohingya che continuano a vivere e lottare in Myanmar. Le parole con le quali i bambini rohingya raccontano la loro storia sono toccanti.
Yasmin Noor è una delle centinaia di migliaia di bambini rohingya fuggiti dal Myanmar alla fine di agosto del 2017. Yasmin ha 8 anni: “Mia madre è stata uccisa dopo che i militari hanno dato fuoco alla mia casa e al mio villaggio”, ha detto. Per lei, come per molti altri bambini vittime di guerra, la vita è cambiata radicalmente. Le Nazioni Unite hanno definito la campagna contro i Rohingya un “esempio da manuale di pulizia etnica” e con il capo dell’organizzazione per i diritti umani ha detto ai giornalisti di non poter escludere “elementi di genocidio”. [8]. Migliaia di bambini sono arrivati nei campi profughi intrisi di fango, da soli dopo aver perso entrambi i genitori.
[4] Rochelle L. Frounfelker, Nargis Islam, Joseph Falcone, Jordan Farrar, Chekufa Ra, Cara M. Antonaccio, Ngozi Enelamah, Theresa S. Betancourt, Living through war: Mental health of children and youth in conflict-affected areas, International Review of the Red Cross
[5] https://international-review.icrc.org/articles/living-through-war-mental-health-children-and-youth-conflict-affected-areas#footnote64_pu9ziz3
[6] https://international-review.icrc.org/articles/living-through-war-mental-health-children-and-youth-conflict-affected-areas#footnote65_ct7zlrp
[7] https://international-review.icrc.org/articles/living-through-war-mental-health-children-and-youth-conflict-affected-areas#footnote69_ydosl6b
[8] AA.VV., Rohingya crisis: UN rights chief 'cannot rule out genocide', BBC
Un’indagine dell’UNHCR ha rilevato che 5.677 (3,3 per cento) delle famiglie di rifugiati rohingya a Cox’s Bazar erano gestite da bambini che non avevano più nessuno che si prendesse cura di loro[1]. Anche Faruq è rohingya. Oggi ha 12 anni: fuggito dal Myanmar con suo padre da allora vivono nel campo profughi di Kutupalong. Anche i suoi ricordi sono pieni di dolore: “Hanno violentato mia madre e poi l’hanno uccisa tagliandole la gola”, racconta Faruq al giornale Vice. “Siamo fuggiti dall’esercito del Myanmar per salvarci la vita. Non immaginavo che mio marito sarebbe stato ucciso nel nostro campo da un altro Rohingya”, ha detto la signora Khatun, 31 anni, alla BBC. “Non riesco a dormire la notte. Vogliamo lasciare il campo. Non so cosa riserva il futuro per me e i miei figli”.
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha richiesto un “orribile costo umano”. Non solo tra i militari ma soprattutto tra i civili, infliggendo immense sofferenze a milioni di persone. Problemi che, secondo il responsabile dei diritti umani delle Nazioni Unite, Volker Türk, si faranno sentire “per generazioni”. “L’attacco armato su vasta scala della Russia contro l’Ucraina, che sta per entrare nel suo terzo anno senza che se ne veda la fine, continua a causare gravi e diffuse violazioni dei diritti umani, distruggendo vite e mezzi di sussistenza”. I dati della Missione di monitoraggio dei diritti umani delle Nazioni Unite in Ucraina parlano di 30.457 vittime civili accertate (10.582 morti e 19.875 feriti) dal 24 febbraio 2022 a marzo 2024. Ma gli sfollati sono milioni. Molti di loro non hanno più una casa [e non vogliono tornare in Ucraina]. Sono molte le istituzioni mediche ed educative danneggiate o distrutte. Questo ha conseguenze significative su quanti ancora in vita. “L’impatto a lungo termine di questa guerra in Ucraina si farà sentire per generazioni”, ha detto Türk. Il rapporto parla di esecuzioni sommarie, sparizioni forzate e repressione del diritto alla libertà di espressione e di riunione che sono state documentate anche nei territori occupati. Come consuetudine per altre guerre, ci si limita ai numeri. E spesso si commette l’errore di limitarsi ai dati relativi al periodo degli scontri. Dimenticando che le conseguenze sulla guerra spesso si fanno sentire per anni dopo la fine del conflitto.
La guerra vista con gli occhi dei medici
I primi a vedere con i propri occhi e a toccare con mano (letteralmente) i danni causati dalle guerre sui civili sono i medici e gli operatori sanitari che lavorano in zone di guerra.
Mark Perlmutter è un chirurgo ortopedico che ha lavorato con decenni di esperienza in missioni di emergenza in diversi continenti. Mark, anzi il Dott. Perlmutter, ha raccontato che, arrivato a Gaza con un gruppo di colleghi e assistenti dopo un viaggio estenuante (parte del materiale medico che portavano hanno dovuto metterlo nel bagaglio personale per non rischiare che venisse sequestrato alla frontiera), si è trovato di fronte uno scenario impressionante. “Siamo sempre andati dove c’era più bisogno di noi. A marzo, era ovvio che il posto era la Striscia di Gaza”. Ma niente poteva far prevedere quello che si sarebbero trovati di fronte.
[9] Goodwill Ambassador Kristin Davis calls for urgent action for Rohingya refugee children, UNHCR
L’ospedale dove hanno portato il Dott. Perlmutter per operare i civili feriti (uno dei pochi ancora in piedi, sebbene gravemente danneggiato dalle bombe) versava in condizioni igieniche terrificanti: il medico ha raccontato che “i vermi cadevano a ciuffi sul tavolo della sala operatoria”. Condizioni estreme che non sorprendono soccorritori come lui che operano da decenni in prima linea. Non è raro che si trovino di fronte a casi estremi e condizioni igieniche incredibili. Ma per tutti gli altri, per quanti vivono lontani da questi orrori, la situazione è diversa. Nessuno metterebbe piede in un ospedale in quelle condizioni. Lì la scelta è questo oppure morire per strada. Molti di quelli che leggeranno queste parole non sono abituati a situazioni estreme. Come quella bambina che è arrivata in ospedale con due centimetri in meno del femore sinistro e senza la maggior parte dei muscoli e della pelle sulla parte posteriore della coscia. Entrambe le sue natiche erano scorticate – ha raccontato il medico – e avevano tagliato così profondamente la carne che le ossa più basse del bacino erano esposte. Il Dottore (con la D maiuscola) ha fatto di tutto per salvarla e per ricostruire quello che mancava con i pochi strumenti a disposizione. Ma a causa della gravità delle ferite riportate nessuno, nemmeno i sanitari, sa dire come sarà la vita di quella bambina una volta adulta. E pensare che molti bambini non sanno nemmeno perché è iniziata questa guerra. E neanche come mai, dopo tanti anni, non è ancora finita.
Anche in Pakistan si combatte da molto tempo. Anche qui da anni si cerca di “bonificare” i campi minati pieni di bombe antiuomo o inesplose che hanno aiutato i paesi occidentali a far crescere il proprio PIL. Uno dei settori più attivi e sviluppati dell’economia di questo paese è quello delle protesi artificiali. Un settore che ha avuto una crescita impressionante anche dal punto di vista scientifico: recentemente, per far fronte alla domanda di arti sintetici, i ricercatori pakistani hanno sviluppato arti controllati grazie all’intelligenza artificiale. Un settore sorprendentemente sviluppato in un paese che solo un secolo fa nemmeno esisteva (come paese indipendente) e che da allora è cresciuto in modo impressionante: oggi è il quinto paese al mondo per abitanti (con oltre 240 milioni di abitanti), ma è anche la settima potenza armata al mondo. Dove oltre alle protesi per i civili che hanno perso un arto sulle bombe inesplose, si continuano a produrre armi nucleari.
Anche in Sudan la situazione degli ospedali è critica: due terzi dei sudanesi non hanno accesso ai servizi sanitari: il 70/80 per cento degli ospedali ha cessato l’attività a causa di una grave carenza di forniture mediche, compresi i farmaci salvavita. L’UNICEF prevede che decine di migliaia di bambini moriranno se non riceveranno un sostegno aggiuntivo. “Rispetto a un anno fa, il numero di bambini uccisi o vittime di violenza sessuale come arma di guerra è in forte aumento”.
Il caso della bambina operata dal Dott. Perlmutter nella Striscia di Gaza non è unico. È uno dei tanti. È questa la condizione in cui vive la popolazione civile a Gaza, dove non essere stati (ancora) colpiti dalle bombe è considerata una fortuna. Per queste persone “fortunate”, la vita è cercare di sopravvivere tra malnutrizione devastante, fogne a cielo aperto e rischi di epidemia che si teme possano diffondersi a causa dei cadaveri sparsi ovunque. Molti sono i corpi dei civili uccisi rimasti sotto le macerie dopo i bombardamenti. Non sono mai stati rimossi. Col tempo si sono putrefatti e ora l’aria e il suolo sono impregnati di un mix di morte, distruzione, bombe e gas provenienti dagli scarichi dei mezzi militari. D’estate la situazione peggiora: con il caldo, i cadaveri si decompongono più velocemente. Come se tutto questo non fosse sufficiente, la densità della popolazione ha raggiunto picchi incredibili: spinti dalle truppe israeliane, milioni di persone si sono accalcati intorno ai pochi centri di raccolta. Per loro non c’è alternativa. Da un lato l’Egitto, che ha chiuso le frontiere. Dall’altro l’esercito israeliano che spesso non considera i civili persone ma obiettivi da colpire. A volte anche con l’aiuto dei cani.
Muhammed Bhar, un ragazzo di 24 anni affetto da sindrome di Down. La condizione di Muhammed era grave, ha spiegato la madre: il suo sviluppo mentale “era al livello di un bambino” . Vivevano a Gaza, in una casa tra le macerie nel quartiere Shujaiya, nella parte orientale della città . La sua era una delle poche abitazioni sopravvissute alle migliaia di bombe fatte esplodere dall’esercito israeliano senza pensare su chi cadevano. Muhammed e la sua famiglia non erano scappati: non è facile spostarsi con un ragazzo con i suoi problemi. Un giorno, i militari israeliani hanno sfondato la porta della loro casa. Lo hanno fatto senza alcuna autorizzazione o permesso. E senza alcun motivo. Appena dentro, hanno liberato i cani che si sono avventati su Muhammed e hanno iniziato a morderlo. I militari hanno costretto i familiari e la madre di Muhammed, Nabila Ahmed Bhar, a uscire sotto la minaccia delle armi. Uscendo hanno visto che il ragazzo “urlava e cercava di liberarsi mentre il sangue scorreva”. “Il cane gli ha morso il petto, poi ha iniziato a mordergli e a tirargli il braccio” ha raccontato la madre di Muhammed ad un giornale. Non hanno potuto fare niente. Qualche giorno dopo, le truppe israeliane si sono ritirate da Shujaiya. Allora i parenti di Muhammed sono tornati per cercarlo. Hanno trovato il suo corpo ormai in decomposizione, con i vermi che gli mangiavano il viso martoriato dai morsi dei cani che lo avevano sbranato. “Non riesco a smettere di pensare alle sue urla e all’immagine di lui che cerca di liberarsi”, ha detto la madre.
Per i più “fortunati”, quelli che non sono morti, anche se gravemente feriti, la vita è un inferno. Il numero di bambini gravemente mutilati e amputati è enorme. E il loro futuro, come quello di molti bambini coinvolti in guerre inutili, è segnato. La gente vive sotto il continuo timore dei bombardamenti: il ronzio dei droni è costante e l’aria è satura dell’odore di esplosivi e polvere da sparo. UNICEF ha definito la Striscia di Gaza “il posto più pericoloso al mondo per essere un bambino” [1]. Per chi sta in un altro continente, magari comodamente seduto a casa, non è facile immaginare cosa possa significare essere bambino e vivere (o cercare di non morire) in una situazione come questa. Gli aiuti promessi (e obbligatori per il Diritto Internazionale Umanitario) non arrivano: il ponte costruito dagli americani per scaricare gli aiuti che arrivano via mare è stato rimosso quasi subito (hanno detto per il mare mosso). E quelli che arrivano via terra sono centellinati: come in altre guerre, la maggior parte restano bloccati alla frontiera dalle forze armate che controllano il territorio. Recentemente, un senatore democratico degli USA, Jeff MERKLEY, dell’Oregon, ha definito il processo per l’autorizzazione degli aiuti da parte delle autorità israeliane opaco e incoerente: “Gli articoli che sono consentiti in un giorno possono essere rifiutati il giorno successivo…”. In realtà , sembra che le lunghe colonne di camion carichi di aiuti forniti da molte associazioni umanitarie e incolonnate per giorni siano utilizzate per bloccare i valichi di frontiera [2]. Per un bambino non è possibile capire fino a che punto si possa odiare i propri simili. Tanto da non far arrivare il latte ai neonati che hanno perso la madre. O le medicine e i medicamenti per un adolescente ferito gravemente dalle bombe.
In queste condizioni non è facile per un medico aiutare le vittime di guerra. È quasi impossibile. Non soltanto per la mancanza di ogni genere di genere di medicina o medicamento.
[10] AA.VV., Global Peace Index, Conflict deaths at highest level this century causing world's peacefulness to decline, IEP
[11] Merkley Calls for Ceasefire and Massive Increase in Humanitarian Aid for Gaza on U.S. Senate Floor – YouTube
E nemmeno per la mancanza di servizi di base come l’acqua corrente (da anni, bloccare l’accesso all’acqua è una delle armi utilizzate dagli israeliani per dissuadere i palestinesi a vivere a Gaza). Ma per un altro motivo: quando mettono le mani sui pazienti più gravi si rendono conto che, durante le guerre, molte volte la crudeltà umana supera ogni limite. A Gaza, dopo essersi insediati nell’ospedale sovraffollato (1.500 persone ricoverate in un ospedale da 220 posti letto), con decine di migliaia di persone che cercavano rifugio intorno e dentro l’ospedale in una situazione invivibile con le unità di terapia intensiva che puzzano di marciume e morte e il terreno dell’ospedale che puzza di liquami, alcuni medici si sono accorti che sotto i ferri finiva un numero impressionante di adolescenti e preadolescenti con ferite da arma da fuoco alla testa. Non si trattava di bambini che si erano feriti involontariamente o che erano stati colpiti da un’esplosione. E neanche di una delle tante vittime dell’attacco di Israele all’ospedale pediatrico (secondo quanto riferito, ha lasciato morire i neonati in un’unità di terapia intensiva pediatrica) [1]. No. Le ferite da arma da fuoco alla testa erano i colpi dei cecchini che avevano sparato volontariamente ai bambini per ucciderli.
Ogni tanto i telegiornali trasmettono immagini dei feriti di un attentato (a Gaza o in uno dei tanti luoghi dove sono in corso conflitti armati). Mostrano la corsa intorno alle ambulanze con la gente che porta in braccio i feriti. Ma non è niente rispetto a quello che si vede in un ospedale pieno di bambini e adulti colpiti da bombe e armi di ogni genere. Ammissibile o no, secondo i regolamenti delle Nazioni Unite. Definire questa situazione “emergenza” è un eufemismo. Spesso a questi problemi se ne aggiunge un altro: la mancanza di personale. Tra i civili palestinesi uccisi molti erano medici o paramedici. Secondo alcune fonti, dal 7 ottobre 2023 a marzo 2024, sono almeno 500 gli operatori sanitari e 278 gli operatori umanitari uccisi a Gaza nell’ultimo periodo [2]. “Civili” uccisi dei quali non parla nessuno. Neanche quando si tratta di uomini e donne capaci di comportamenti eroici. Come il Dottor Amy Goodman (anche in questo caso la D non è un caso). Il 31 ottobre, in un’intervista a Democracy Now, il Dottor Goodman aveva cercato di spiegare il motivo per cui aveva deciso di rimanere in Palestina: “Se me ne vado, chi cura i miei pazienti? Non siamo animali. Abbiamo il diritto di ricevere un’adeguata assistenza sanitaria. Quindi non possiamo semplicemente andarcene” [3]. Pochi giorni dopo, il Dottor Goodman è stato ucciso dalle bombe scagliate senza alcun motivo sulla sua casa da un aereo israeliano [4]. Oltre a lui sono stati uccisi tre membri della sua famiglia. Sono andati ad aumentare il numero dei morti e feriti civili riportati nei rapporti delle autorità . Loro sono morti. Ma il numero dei morti no. È “stimato”. Sì. Perché il numero esatto non è noto a nessuno.
Che fine fanno i cadaveri dei civili colpiti dalle bombe (e non solo)? A volte sono i familiari che cercano di seppellirli come possono.
[12] Int'l committee must be formed to investigate Israeli army’s abandonment of five infants, now dead, alone in Gaza hospital, Euro-Med Human Rights Monitor
[13] 500 healthcare workers killed during Israel’s military assault on Gaza, MAP 26, giugno 2024
[14] Gaza Doctor Says Hospitals Have to Choose Who Lives and Who Dies Amid Worsening Humanitarian Crisis, Democracy Now!
[15] Vanessa Romo, Remembering Gazan Dr. Hammam Alloh, killed by an Israeli airstrike, NPR 21 novembre 2023
Altre volte restano dove sono stati barbaramente uccisi senza sapere nemmeno perché. E senza che i loro parenti abbiano più notizie di loro. Recentemente una bambina colpita da una bomba è stata portata in ospedale e operata d’urgenza. Appena sveglia ha chiesto: “Wain baba?” (Dov’è papà ?). I sanitari hanno cercato di rassicurarla dicendo che sarebbe arrivato presto. “Stai mentendo”, ha detto lei calma. “Deve essere morto”. Ma il suo cadavere non è stato più ritrovato.
Come in America Latina dove il numero dei desaparecidos, degli scomparsi è incalcolabile. Alle madri ai parenti degli scomparsi non resta che scavare in alcuni siti sperando di trovare il corpo del proprio congiunto. O una fossa comune con decine e decine di cadaveri irriconoscibili. Per cercare di risalire alla loro identità recentemente si è cercato di ricorrere all’intelligenza artificiale. director Santiago Barros ha riprodotto con l’AI i volti di molti desaparecidos, bambini e bambine sequestrati dai cartelli o molti anni fa durante la dittatura argentina, oppure tolti alle madri appena nati nei luoghi di prigionia. Ha prodotto centinaia di volti per dare la pace a chi da anni cerca il proprio figlio o la propria figlia senza sapere se è morto/a. Oggi sono sempre più numerose le famiglie dei desaparecidos che chiedono a Barros di disegnare il volto del loro familiare. Come ha detto Barros, la reazione di questi genitori dopo aver visto le immagini ricostruite con l’AI è commovente: rivedevano i loro parenti, anche se attraverso foto false non reali solo ricostruite al computer.
Le conseguenze psicologiche
Il caso della bambina palestinese colpita dalle bombe nella Striscia di Gaza ricorda quello di molti suoi coetanei. Casi commoventi di cui non parla nessuno (con qualche rarissima eccezione).
Come quello di Selma Baćevac. La “sua” guerra è iniziata nel 1992, in Bosnia. A quel tempo, Selma aveva sette anni. Viveva a Sarajevo. Come per la bambina palestinese anche il padre di Selma è scomparso, ucciso durante i combattimenti. Lei è sopravvissuta ai bombardamenti nascondendosi dove poteva ogni volta che sentiva esplodere un ordigno. A distanza di tanti anni (e a tanti chilometri di distanza: ora vive negli USA), i segni della guerra sono ancora vivi nelle sue parole. “Sono accadute così tante atrocità che potrei parlare con te per ore e non basterebbero”. Selma racconta che nei disegni che faceva da bambina (come in quelli di molti altri bambini come lei) compaiono sempre immagini di bombe ed esplosioni e morti. Spesso i traumi psicologici delle guerre sui bambini non si rimarginano. “Da bambina, quando non provi la sicurezza, influisce sulla tua capacità di relazionarti con te stesso”, dice Selma. “Influisce sulla tua capacità di fidarti del tuo ambiente. Questo influisce sulla tua capacità di fidarsi degli adulti [1]. Abbiamo paura di impegnarci, paura di stabilire dei limiti, paura di parlare, paura di essere visti”.
È uno dei problemi delle guerre di cui non si parla mai: spesso i civili non sono colpiti solo fisicamente, ma psicologicamente. Le conseguenze delle guerre vanno ben oltre i traumi legati allo stress momentaneo. “Abbiamo un certo numero di casi di bambini con disturbo da stress post-traumatico che sono stati trasferiti all’ospedale psichiatrico, abbiamo anche casi simili tra gli adulti”, ha detto Rasha Mohamed Taher, capo della divisione di salute mentale presso il ministero della salute sudanese nello Stato del Mar Rosso. “La cosa che possiamo fare ora per i bambini è sostenerli e alleviare gli impatti psicologici negativi su di loro”.
Durante le guerre bambini, adolescenti e adulti sono soggetti a quella che molti psicologi definiscono “una brutale frantumazione di parti dei loro mondi interiori. Il loro funzionamento mentale è assalito da forze distruttive”. Traumi psicologici spesso legati anche alla perdita di sicurezza. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e l’UNICEF calcolano che sono almeno 20 milioni i bambini e gli adolescenti sfollati dal loro paese di origine come rifugiati nell’anno 2023. Per molti di loro, le ferite più gravi potrebbero essere quelle che non si vedono.
Negli ultimi due decenni si è visto un crescente interesse per l’impatto psicologico della guerra sui bambini. Molti ricercatori hanno studiato questi fenomeni. Oggi è dimostrato che l’esposizione a eventi avversi (tra cui violenza e traumi di guerra) porta a un’incidenza superiore alla media di disturbo acuto da stress, disturbo da stress post-traumatico o PTSD e a malattie fisiologiche e mentali. Nella sola Ucraina, circa metà di tutti i rifugiati sono bambini. Come ha detto una ricercatrice, “si tratta di un sacco di bambini che hanno perso le loro case, amici, quartieri, scuole e molto altro ancora”. Per i bambini, gli effetti più comuni sulla loro salute mentale dell’esposizione alla guerra sono sintomi elevati di stress traumatico, disturbi depressivi, stati d’ansia e stress post-traumatico [2].
I dati riportati nello studio della CRI sono tremendi. Tra i bambini colpiti dal conflitto israelo-palestinese si rileva una prevalenza del disturbo da stress post-traumatico (PTSD) che varia dal 18 per cento al 68,9 per cento [3]. In uno che ha analizzato i dati riguardanti bambini esposti alla guerra civile siriana, il 60,5 per cento soddisfa i criteri per almeno un disturbo psicologico. Diversi i disturbi psicologici. Reazioni acute allo stress, disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), disturbo di panico, disturbi d’ansia specifici dell’infanzia e disturbi del sonno. Nella tarda infanzia, i bambini esposti a traumi legati al conflitto sono predisposti a sintomi esternalizzanti, inclusi problemi comportamentali e disturbi di condotta/opposizione provocatoria.
Di queste conseguenze delle guerre si parla poco. Troppo poco. Invece, secondo gli psicologi, sarebbe fondamentale agire entro quelle che alcuni chiamano le “ore d’oro”, un lasso di tempo limitato immediatamente successivo al trauma entro il quale è possibile limitare danni a medio e lungo termine (come disturbi da stress post-traumatico, ansia e depressione). Subito dopo l’inizio della guerra in Ucraina, dopo l’invasione da parte della Russia, alcuni ricercatori hanno condotto uno studio per valutare gli effetti dei conflitti armati sulla salute mentale degli adolescenti della regione di Donetsk dove il 60 per cento degli adolescenti aveva assistito ad attacchi armati,
[16] Driehuis, S.R., The Relationship between Childhood Trauma and Epistemic Trust: A cross-sectional Study, Utrecth University, 2021
[17] Corinne Masur, In che modo la guerra e le perdite influiscono sui bambini, Psychology Today 9 luglio 2024
[18] Living through war: Mental health of children and youth in conflict-affected areas, International Review of the Red Cross
quasi il 14 per cento era stato vittima di violenza diretta e quasi il 28 per cento era stato costretto a lasciare la propria casa. Successivamente i risultati sono stati confrontati con test effettuati su adolescenti che vivono a Kirovograd, in una zona dell’Ucraina allora non colpita dagli scontri. Gli adolescenti che vivevano nella regione di Donetsk hanno dimostrato tassi significativamente più elevati di PTSD. Alcuni medici e psicologi hanno cercato di usare il “primo soccorso per la salute mentale”, nel tentativo di ridurre gli effetti psicologici sulle persone che coinvolte nel conflitto. Secondo alcuni studiosi, questi approcci aiuterebbero le persone a riprendersi più velocemente una volta finita la guerra. “L’idea è che abbiamo davvero bisogno di raggiungere le persone in una fase molto precoce dopo l’esposizione al trauma, al fine di essere in grado di prevenire le conseguenze sulla salute mentale”, ha dichiarato Frankova a BBC Future, un anno dopo l’inizio della guerra. Gli studi suggeriscono che questi piccoli atti di sostegno – a volte semplici fino a sembrare banali, come ricordare a qualcuno che non sono soli – riduce il rischio di trovarsi in condizioni più gravi e difficili da risolvere [1]. Le “ore d’oro” si riferiscono alle prime ore fino a circa tre giorni dopo un’esperienza traumatica, una fase cruciale per il consolidamento della memoria. “È una finestra di opportunità in cui la memoria a breve termine potrebbe non diventare memoria a lungo termine”, afferma Frankova. “Il nostro compito era quello di dire alle persone esattamente cosa sarebbe stato dannoso e cosa sarebbe stato utile”. Per gli operatori di salute mentale in prima linea, ci sono due fasi cruciali del supporto precoce. Il primo è il più direttamente paragonabile al primo soccorso fisico convenzionale, afferma Agatha Abboud, responsabile della salute mentale e del supporto psicosociale per il Comitato internazionale della Croce Rossa a Kiev. “È il triage di persone che hanno bisogno di parlare con qualcuno solo per calmarsi, solo per essere radicate, per ricordare l’ambiente circostante, chi le circonda”, dice la Abboud. “Perché questo è il periodo in cui le persone si sentono più agitate o più ansiose”. Dopo questo immediato primo soccorso psicologico arriva la fase di “intervento precoce”. “È simile con qualsiasi condizione medica: prima si tratta la condizione, meno è probabile che diventi complessa in futuro”. “Se lo trascuri, sicuramente, potrebbe trasformarsi in qualcosa di più serio. E qui in Ucraina non stiamo parlando di una persona che attraversa una situazione. È un’intera popolazione che sta attraversando la stessa situazione”.
A volte, durante una guerra o un disastro naturale, è facile sentire dire che i bambini sono “resilienti”. Secondo alcuni esperti questo è vero [2], ma solo se questi adolescenti possono beneficiare di particolari fattori protettivi, come uno stretto legame con un caregiver vicino e in buona salute [3]. Quando questo non avviene, le conseguenze dei traumi delle guerre sono drammatiche. Decenni di ricerche in questo settore hanno confermato che i traumi vissuti durante l’infanzia possono avere effetti gravi sul sistema nervoso di un bambino, cambiando il suo percorso di sviluppo, il suo rischio di disturbi psicologici e, persino, la sua salute fisica a lungo termine.
In Egitto, uno dei paesi dove è in corso una delle guerre che non interessano a nessuno, uno studio condotto su 515 bambini in età scolare ha fornito risultati preoccupanti: molti minori hanno mostrato tassi elevati di depressione (il 62 per cento), PTSD (il 70 per cento) e sintomi associati all’ansia,
[19] Melita J Giummarra, Alyse Lennox, Gezelle Dali, Beth Costa, Belinda J Gabbe, Early psychological interventions for posttraumatic stress, depression and anxiety after traumatic injury: A systematic review and meta-analysis, National Library of Medicine, 5 maggio 2018
[20] Resilience, Centre of the Developing Child
[21] Emmy E. Werner, Children and war: Risk, resilience, and recovery, Development and Psychopathology Cambridge, 17 aprile 2012
come palpitazioni cardiache (il 53,1 per cento) o paura di rimanere a casa da soli (il 61,2 per cento), paura di essere attaccati o uccisi nella propria casa (il 73 per cento) e paura di essere rapiti (loro stessi o i loro familiari) (l’81 per cento). “Essere così indifesi in queste condizioni altera drasticamente la fiducia di un bambino nella sicurezza di qualsiasi futuro”, ha commentato il dottor Thomas.
Pur essendo ben noti gli effetti dei conflitti armati sui civili, permane una notevole discrepanza tra la voglia di comprendere gli effetti delle esperienze legate alla guerra sullo sviluppo dei bambini e la disponibilità di dati (Burgund Isakov et al., 2022). Spesso mancano i dati sugli effetti delle guerre in corso sui civili. In particolare i danni sui più piccoli [1]. La domanda è: quando un intero paese è sotto assedio, le infrastrutture sono prese di mira e il movimento all’aperto è pericoloso o impossibile, come si fa a fornire queste informazioni essenziali prima che scadano le “ore d’oro”? Una situazione comune a molti paesi in guerra. Spesso appare utopistico sperare di poter fare ricorso a tecniche di recupero come queste quando per i civili non c’è nemmeno l’acqua per sopravvivere.
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