Un recente studio pubblicato sulla rivista Renewable Energy ha dimostrato, per la prima volta, che gli impianti a biomassa legnosa degli Stati Uniti emettono in media una quantità di inquinamento quasi 3 volte superiore a quella rilasciata dagli impianti a combustibili fossili tradizionali, come petrolio e carbone. Secondo la ricerca, in particolare, la combustione di pellet in legno per fini energetici emette un’ampia gamma di inquinanti atmosferici, tra cui particolato e diossine altamente dannosi per la salute umana. Migliaia di tonnellate di inquinanti atmosferici tossici, dall’ossido di azoto ai composti organici volatili, verrebbero inoltre emessi anche nel processo di produzione dei pellet, soprattutto nel sud-est degli USA. Nel complesso, almeno 55 inquinanti hanno superato di due volte la soglia di concentrazione consentita dalle agenzie statali per la qualità dell’aria. I valori più elevati – ha poi evidenziato lo studio – hanno un impatto negativo perlopiù sulle comunità povere e minoritarie che tipicamente vivono vicino agli impianti di pellet.
Negli Stati Uniti, quindi, la combustione di biomassa forestale contribuisce fino al 17% di tutte le emissioni inquinanti, pur rappresentando solo l’1,3% della produzione energetica totale. Interpellati, i rappresentanti dell’Associazione statunitense del pellet industriale non hanno voluto rilasciare dichiarazioni. Tuttavia, basta dare un’occhiata al loro sito per rendersi conto di come stiano tentando di mistificare la realtà. In fatto di emissioni climalteranti, ad esempio, il sito web dell’Associazione è pieno di contenuti che affermano quanto l’industria del pellet sia ‘neutrale’ poiché le foreste tagliate ricrescono nel tempo e sequestrano il carbonio emesso. Eppure, anche su questo fronte, la combustione della biomassa non sembra una scelta sensata. Secondo uno studio del 2018, tale fantomatica neutralità climatica si avrebbe infatti solo se le foreste tagliate per ricavare pellet venissero lasciate in pace per oltre un secolo. Ciononostante, i governi appaiono ancora determinati a incentivare il settore. Nel giugno 2023, il Servizio Forestale degli Stati Uniti ha annunciato l’erogazione di circa 10 milioni di dollari a sostegno di una serie di progetti pilota di combustione di biomasse in Alaska, California, Washington, Colorado, Kentucky, New Hampshire e Virginia. Il tutto, a detta di numerosi gruppi ambientalisti e di giustizia sociale, grazie anche ad operazioni di lobbying sul Congresso degli Stati Uniti da parte di due dei maggiori produttori di pellet al mondo, le aziende Enviva e Drax che complessivamente gestiscono oltre una dozzina di impianti nel sud-est degli Stati Uniti.
Ma anche oltreoceano la situazione non cambia. Sia l’Unione Europea che il Regno Unito hanno già speso miliardi di fondi pubblici per convertire decine di impianti energetici a carbone in impianti a pellet. Basti pensare che, nella sola UE, la combustione della biomassa per la produzione di energia rappresenta quasi il 60% del cosiddetto mix di energie rinnovabili. Così, nel complesso, il Vecchio Continente rappresenta il più grande mercato mondiale di pellet in legno. E, nonostante gli avvertimenti degli scienziati, la crescita non sembra subire battute d’arresto. Nel 2021, il consumo di pellet nell’UE è salito a oltre 23 milioni di tonnellate e la domanda, anche grazie alla direttiva sulle energie rinnovabili REDII, dovrebbe salire ancora. Ed è proprio su questo punto che gli ambientalisti stanno cercando di far leva per cambiare le cose. Come può una direttiva destinata a promuovere la sostenibilità appoggiare un settore dannoso in termini di inquinamento e impatti sul clima e gli ecosistemi? Si sono ad esempio più volte chiesti gli attivisti della Forest Defenders Alliance. Un’alleanza composta da più di 100 ONG che circa un anno fa ha promosso una petizione per chiedere all’Europa di rivedere la Direttiva sulle energie rinnovabili, specie alla voce ‘Combustione del legno’, alla quale sono destinati ben 17 miliardi di euro di sussidi per la produzione di energia rinnovabile.
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