Julian Assange sarà estradato negli Stati Uniti? Oggi inizia la partita decisiva. L’Alta Corte di Londra si dovrà esprimere sull’estradizione del giornalista e attivista negli Usa, ove rischia una lunghissima pena detentiva.
“Questo caso è destinato stabilire in sostanza se egli vivrà o morrà”, ha detto Stella Assange, moglie del giornalista più divisivo del pianeta nello scorso decennio, alla vigilia. Parole che pesano come un macigno e ci invitano a pensare che, pochi giorni dopo la morte di Aleksei Navalny, anche in Occidente la dissidenza contro il potere potrà portare a una carcerazione potenzialmente fatale.
Assange appare destinato all’estradizione da quando, nell’estate 2022, ha deciso a riguardo il governo britannico di Boris Johnson, che si è impegnato agli Usa il giornalista, attivista e fondatore di WikiLeaks accusato da Washington di aver attentato alla sicurezza nazionale e di spionaggio. Lo ha stabilito, nel giugno 2022, il Ministro dell’Interno Priti Patel, la quale ha firmato il decreto di estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti. Assange negli Stati Uniti sarà prossimo all’avvio del processo per diversi reati definiti dall’Espionage Act, in virtù dei quali rischia fino a 175 anni di carcere. Esclusa la pena capitale, prevista dall’Espionage Act, dato che il Regno Unito non può estradare persone che negli ordinamenti di arrivo rischiano l’esecuzione.
Patel, considerata un falco filo-americano nel Partito Conservatore, ha argomentato che la decisione avviene sulla scia dell’analisi dei documenti prodotti dai tribunali del Regno Unito che hanno dato il via libera all’estradizione. Secondo le corti britanniche, infatti, non sarebbe “opprimente o ingiusto” ai fini processuali estradare il fondatore di Wikileaks. Nel 2022 Patel e i tribunali hanno ritenuto che non sussisterebbero ostacoli all’estradizione e che vadano respinte le accuse di chi dichiara che la detenzione oltre Atlantico sarebbe incompatibile con i diritti umani del giornalista australiano, compreso il suo diritto a un processo equo e alla libertà di espressione. Suella Bravermann, la titolare dell’Interno succeduta a Patel nei governi di Liz Truss e Rishi Sunak, che l’ha cacciata per le sue esternazioni radicali contro i manifestanti palestinesi, ha confermato la linea della collega.
Assange, lo ricordiamo, è in carcere dall’aprile 2019, quando è stato arrestato al termine dell’asilo concessogli dall’ambasciata ecuadoregna a Londra, ove si trovava dal 2012. Detenuto per sei mesi nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh (che Tony Blair voleva in passato rendere “la Guantánamo britannica”), nel 2019 è stato anche incriminato negli Usa che ne chiedono da tempo l’estradizione.
L’ex relatore dell’Onu sulla Tortura, lo svizzero Nils Meltzer, ha criticato questa possibilità ormai prossima a concretizzarsi focalizzandosi su come la caccia ad Assange si sia sviluppata: Assange è indagato per aver rivelato con WikiLeaks centinaia di migliaia di documenti che mostravano le dinamiche profonde del potere e degli apparati militari statunitensi, rivelavano presunti crimini di guerra e mostravano le problematiche nella gestione delle crisi di Afghanistan e Iraq. Tali rivelazioni, che arrivarono anche a Guardian e New York Times per la divulgazione, sarebbero per Meltzer potenzialmente in grado di scatenare una vendetta Usa. Il funzionario nel maggio 2019, quando era ancora in carica, ha definito un processo tendente alla criminalizzazione del giornalismo investigativo la crescente attenzione Usa per Assange. Il quale, in passato idolo dei progressisti internazionali, è passato nella narrazione da “eroe” a agente manipolatore quando nel 2016 ha osato mettere le mani sugli archivi del Comitato Nazionale Democratico di Hillary Clinton. Tanto da essere definito, senza prove a sostegno, un agente del “Russiagate” che avrebbe favorito la vittoria di Donald Trump.
Il caso di Assange è paradigmatico e appare tutt’altro che secondario il fatto che la sua estradizione possa essere convalidata giudiziariamente a mezzo secolo esatto dal coronamento politicp dello Scandalo Watergate. Il più grande caso di espressione dell’influenza politica e di sistema di una stampa veramente libera: fu solo il tenace lavoro di Bob Woodward e Carl Bernstein, arrembanti reporter, a scoperchiare il Vaso di Pandora che nel 1974 portò alla caduta del presidente Usa Richard Nixon.
A giugno 2022, quando il Regno Unito decise l’estradizione, fu lapidario il commento della giornalista Stefania Maurizi, tra le poche a seguire in Italia tutto il processo che ha portato all’incriminazione e all’avvio dell’estradizione di Assange: per la Maurizi le “democrazie occidentali non sono sprofondate di nuovo nella barbarie medioevale” per “battaglie come queste”. Il caso Assange rappresenta, a suo dire, il “diritto della stampa di rivelare criminalità di Stato ai più alti livelli e dell’opinione pubblica di conoscerla”.
E cinquant’anni dopo la conclusione Watergate, questi sono principi non secondari. I principi che condizionano la realtà quotidiana dei nostri sistemi democratici, liberali e garantisti e, soprattutto, i valori che a detta dei nostri decisori ci distinguono dalle autocrazie. Principi e valori che non possono valere solo se usati come clava contro i propri avversari, ma devono invece essere garanzia per la quotidianità di ogni sistema. Il caso Assange vede il desiderio di giustizia sfociare nel sentimento di vendetta: e in vista dell’estradizione negli Usa il rischio è che su questi binari si costruisca la narrazione di un processo a cui l’imputato rischia di arrivare prostrato e fragile. Viene da chiedersi cosa possa esserci di diverso, in sostanza, dal caso Navalny su cui (giustamente!) la nostra stampa e politica hanno speso negli anni tempi ed energia. Democracy dies in darkness, lo ricordiamo, non vale solo laddove democrazia non c’è.
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