Da “democratura” ad autocrazia: la stretta sul dissenso in Russia fino al caso Navalny

feb 20, 2024 0 comments


Di Fulvio Scaglione

Tra i tanti rimandi che la fine drammatica e improvvisa di Aleksej Navalny ha ispirato, ce n’è uno che è sfuggito a tutti: il dissidente è morto nella colonia penale IK-3 dell’Artico tre giorni dopo che Vladimir Putin ha controfirmato, rendendola effettiva, la legge che aggiunge il sequestro dei beni alla pena fino a un massimo di 5 anni di carcere prevista per coloro che diffondono “notizie false” sulle forze armate russe. Una coincidenza, certo. Ma un combinato disposto di fatti che gettano piena luce su una realtà indiscutibile: tra le cose che i due anni della guerra in Ucraina, che ricorreranno il 24 febbraio, hanno cambiato in Russia c’è anche la natura del potere che la regge.

Per molti anni la Russia ha potuto essere definita una demokratura, cioè un regime fortemente centralizzato con spazi di democrazia. D’altra parte Vladimir Putin era stato molto chiaro, una volta arrivato al vertice della politica russa, nel definire le “sue” priorità: la prima, riportare coesione nel sistema riportando il centro (Mosca, il Cremlino) al centro di tutto, con le periferie chiamate a eseguire le direttive del Governo (appunto) centrale.

L’ultima guerra di Cecenia, che Putin condusse nel modo che sappiamo a cominciare da quand’era “solo” primo ministro, nel 1999, era in essenza il monito definitivo tutti coloro che, com’era successo nell’epoca Eltsin, erano tentati di mettere in discussione l’unità della Federazione Russa. D’altra parte, il pensiero che occorre uno Stato forte all’interno per essere rispettati e/o temuti all’esterno è sempre stato presente in Putin. Però per molti anni la stampa critica ha potuto lavorare, le organizzazioni umanitarie aprire sedi e condurre missioni, l’opposizione farsi sentire, i giornalisti stranieri viaggiare nel Paese e raccontare ciò che vedevano. Non che fosse facile. I limiti non erano ampi, le intimidazioni non mancavano ma in generale si poteva. Se Dmitrij Muratov, direttore della Novaja Gazeta, ha avuto il Premio Nobel per la Pace nel 2021, è perché per anni il suo giornale (che pure ha avuto le sue vittime) è uscito, ha raccontato una Russia certo non di regime e ha potuto raggiungere i lettori.

Le cose cominciano a cambiare quando le cosiddette “rivoluzioni colorate” arrivano in Georgia nel 2003 e in Ucraina nel 2004, cioè ai confini della Russia. L’allargamento dell’Unione Europea (2004) a una serie di Paesi usciti dall’esperienza sovietica con una carico di rancori anti-russi, e il corrispondente allargamento della Nato, cioè di un’alleanza militare a guida Usa, fanno il resto. Lo Stato forte desiderato da Putin comincia a dotarsi di un pensiero a sua volta forte e a ricostruire la storia patria sulla base delle nuove esigenze politiche. Non è un caso se l’uomo politico russo più amato da Putin è Pjotr Stolypin, il tedesco ch’era stato primo ministro dal 1906 al 1911, grande riformatore e grande fautore dello Stato autoritario. La Russia non è uno Stato ma una forma particolare di civiltà, disconoscere la sua storia (in cui tutto si tiene, dalla Rus’ culla dell’ortodossia alla Russia imperiale fino alla Russia post-sovietica, passando però per Stalin condottiero della lotta dei russi contro il nazismo) e sposare i valori occidentali significa tradirla. In questa fase entrano in vigore i provvedimenti che proibiscono la cosiddetta “propaganda LGBT”, perché uno dei tratti distintivi dello Stato-civiltà russo è il suo attaccamento ai “valori tradizionali”, patria-famiglia-religione in primo luogo.

In quel modo la demokratura diventa, appunto, Stato autoritario. Stato del pensiero unico, condizione che diventa sempre più stringente man mano che il confronto con l’Occidente si fa più serrato. L’Euromaidan che scuote l’Ucraina nel 2014, e che il Cremlino considera non una rivoluzione ma un colpo di Stato a guida americana, convince Putin e i suoi che nessun dialogo è più possibile e nessun varco può essere lasciato aperto. Il cappio al dissenso si stringe piano piano, fino al 2021 in cui Navalny viene arrestato, le sue organizzazioni messe al bando, i suoi collaboratori costretti all’esilio. È la vigilia dell’invasione dell’Ucraina, e questi due anni di regime di guerra hanno compiuto l’opera, compimento simboleggiato, come dicevamo, dalla morte dello stesso Navalny. Ogni spazio viene chiuso con una serie di leggi speciali, la più emblematica delle quali è quella che citavamo all’inizio: diffondere “notizie false” sulle forze armate può costare cinque anni di carcere e il sequestro dei beni. Scrivere, per fare un esempio teorico, che i russi hanno conquistato Avdeevka ma hanno perso un sacco di uomini, può essere considerato un notizia falsa, con quel che ne consegue. Il sequestro dei beni, poi, è mirato non alle persone comuni ma a tutti coloro che possono avere molto da perdere: scrittori, intellettuali, artisti, che magari sono emigrati all’estero senza però potersi portare appresso case, dace, diritti d’autore o altri possessi materiali. La Russia è ora un’autocrazia. Il percorso si è compiuto.

FONTE: https://it.insideover.com/politica/da-democratura-ad-autocrazia-la-stretta-sul-dissenso-in-russia-fino-al-caso-navalny.html

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