I traumi non sono semplici ricordi, ma frammenti di eventi precedenti vissuti come attuali. Interagiscono con una parte del cervello adibita anche all’orientamento visuale-spaziale che risulta incontrollabile e diversa rispetto a quella della memoria. Possono irrompere nella vita quotidiana catapultando una persona nel mezzo di un evento terrificante e shock “sottomettendo il momento presente”. È ciò che riporta un nuovo studio sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Nature Neuroscience. I ricercatori hanno studiato cosa succede nel cervello dei pazienti affetti da disturbo da stress post traumatico (PTSD), chiedendosi se esperienze differenti attivassero aree diverse dell’encefalo e indagando sul ruolo svolto nell’ambito della memoria e delle emozioni. La dottoressa Ruth Lanius, non coinvolta nello studio, ha spiegato: «Un soldato, se sente i fuochi d’artificio, può correre e mettersi al riparo. I ricordi traumatici non vengono ricordati, ma vengono rivissuti. I medici potranno utilizzare questi risultati per curare pazienti che non sentono che il trauma è passato, impiegando terapie mirano a fornire contesto».
La ricerca ha coinvolto 28 soggetti affetti da disturbo da stress post traumatico. I partecipanti sono stati sottoposti ad una serie di domande relative all’evento, le quali hanno permesso di ricostruire una “storia” della vicenda. Il testo è stato poi scritto e letto ai pazienti mentre l’attività cerebrale veniva mappata tramite risonanza magnetica funzionale. Come “controllo”, i ricercatori hanno deciso di analizzare il comportamento cerebrale anche durante il racconto di esperienze tristi o rilassanti della loro vita che però non erano coinvolte con le esperienze traumatiche. È stato scoperto che durante i racconti di controllo, l’ippocampo – la parte del cervello che svolge un ruolo fondamentale nella formazione delle memorie esplicite, nella memoria a lungo termine e nella navigazione spaziale – seguiva modelli di attività simili tra tutti i partecipanti, suggerendo così una normale formazione della memoria. Durante la lettura delle storie delle esperienze traumatiche invece, l’ippocampo di ciascun soggetto ha mostrato un’attività individualizzata e frammentata e perciò significativamente differente rispetto ai modelli di attività cerebrale caratteristici della normale formazione di memoria. Inoltre, sono stati registrati effetti anche in un’area chiamata “corteccia cingolata posteriore” (PCC), ovvero la zona del cervello adibita alla memoria topocinetica e all’orientamento visuo-spaziale e solitamente coinvolta in attività come l’introspezione o il sogno ad occhi aperti. Più gravi erano i sintomi, maggiore era l’attività nella PCC.
Daniela Schiller – neuroscienziata della Icahn Scholl of Medicine del Mount Sinai Hospital e coautrice dello studio – ha dichiarato che gli effetti registrati sull’ippocampo «dicono che il cervello si trova in uno stato diverso nei due ricordi». Ha poi aggiunto che l’attività della corteccia cingolata posteriore dimostra che «il cervello non sembra essere in uno stato di memoria. Sembra che sia uno stato di esperienza presente». Ilan Harpaz-Rotem – autore dello studio e professore di Psichiatria e Psicologia all’Università di Yale – ha spiegato le possibili implicazioni descrivendo un caso dalla sua clinica: un medico dell’esercito era perseguitato da ricordi traumatici del suo passato. In particolare, dal ricordo di bendare freneticamente la ferita di un soldato mentre era sotto il fuoco nemico. La terapia ha mirato a «costruire una storia» e «un ricordo coerente» inserendo dettagli come un soldato già morto che giaceva nelle vicinanze e l’uso di troppe bende. Strategie simili aiuterebbero così a trasformare il ricordo traumatico in uno che somigli maggiormente a quelli che non lo sono. «È come avere un blocco al posto giusto. Se posso accedere ad un ricordo, so che è un ricordo e so che non mi sta succedendo adesso», ha poi concluso.
Si tratta quindi di una ricerca che porta con sé importanti implicazioni per la ricerca futura nel settore. La dottoressa Ruth Lanius – direttrice della ricerca sul disturbo da stress post traumatico presso l’University of Western ontario e non coinvolta nello studio – ha definito i risultati “seminali”, sia perché stabiliscono i percorsi distinti dei ricordi traumatici, sia perché indicano la strada per la ricerca in aree del cervello meno esaminate. Ha poi dichiarato: «I medici possono utilizzare questi risultati per curare pazienti che non sentono che il trauma è passato, impiegando terapie che portano in linea il contesto. Brian Marx – vicedirettore della divisione di scienze comportamentali del Centro nazionale per il disturbo da stress post traumatico – ha definito la scoperta “intrigante”, concludendo: «Se si riuscisse a identificare i marcatori biologici del disturbo da stress post-traumatico, ciò rappresenterebbe un importante contributo scientifico, risolvendo le differenze all’interno del campo su quali esperienze costituiscono un trauma».
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