Nella notte tra domenica e lunedì, Aleksandr Vučić, Presidente uscente della Repubblica Serba, ha tenuto una conferenza stampa per annunciare la schiacciante vittoria del proprio partito alle elezioni anticipate annunciate poco più di un mese fa, confermando la maggioranza assoluta della propria coalizione, riunita sotto la lista La Serbia non deve fermarsi. La vittoria della coalizione dell’SNS, il Partito Progressista Serbo di cui Vučić è leader, si allarga anche alla capitale Belgrado, per la quale si sono parallelamente tenute le elezioni del sindaco, ma è fortemente contestata dai leader dell’opposizione di Serbia contro la violenza che ne denunciano brogli elettorali. Per quanto Vučić si sia sempre dichiarato a favore dell’entrata della Serbia nell’UE, la direzione in cui il Paese in perenne bilico tra Oriente e Occidente sta camminando non è assolutamente scontata: la nota vicinanza del Paese alla Russia, i sempre più vicini rapporti con la Cina, e le difficili relazioni col Kosovo, infatti, dipingono uno scenario ancora offuscato e suggeriscono un destino tuttora parecchio incerto.
La vittoria di Vučić, come reputano molti analisti, era piuttosto telefonata ed è stata certamente calcolata dal Presidente serbo. In un articolo uscito sull’Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, Antonela Riha sottolinea come la ripetuta chiamata alle urne di Vučić rientri in una strategia di damage control (controllo dei danni) volta riaffermare la propria forza «quando percepisce un calo di popolarità o quando reputa che possano sollevarsi in futuro situazioni sfavorevoli al proprio governo». È una terapia d’urto, insomma, per mezzo della quale Vučić «riesce a ritagliare spazio di manovra che gli permette di posticipare decisioni importanti, primariamente concernenti il Kosovo». Non è dopo tutto la prima volta che l’SNS scioglie il Parlamento e chiama i propri cittadini a votare; questa volta l’annuncio delle elezioni anticipate si collocava all’apice dei movimenti di protesta sorti questo maggio in seguito a due sparatorie di massa, nei quali i manifestanti chiedevano leggi contro il commercio di armi e contro stessa la cultura nazionalista serba, accusata di esaltare la violenza.
In seguito ai crescenti episodi di tensione, i leader delle opposizioni si sono coalizzati nella lista Serbia contro la violenza, ma come riporta l’East Journal, a pochi giorni dal voto è arrivata la controffensiva di Vučić: il leader della lista di opposizione Djordje Miketic è infatti stato costretto a ritirarsi dalla campagna a causa di uno scandalo scoppiato dopo la pubblicazione e diffusione da parte dei media affiliati all’SNS – televisione compresa – di un suo video privato di natura pornografica. Miketic non è rimasto in silenzio e ha accusato la BIA, i servici di intelligence serbi, di lavorare al servizio di Vučić, dichiarazioni smentite dalla stessa BIA. In aggiunta a ciò, subito dopo i risultati, i leader di Serbia contro la violenza hanno imputato a Vučić di avere sostanzialmente truccato le elezioni, e nel particolare quelle del sindaco di Belgrado, facendo venire pullman pieni di persone corrotte non residenti a votare a favore dell’SNS; tale denuncia è stata sottoscritta dall’organismo indipendente del Centro per la ricerca, la trasparenza e la responsabilità, che ha rilasciato un comunicato in cui esprimeva la propria preoccupazione «riguardo al vasto numero di casi di trasferimento organizzato di votanti».
Con la riaffermazione della maggioranza assoluta della coalizione facente capo all’SNS si riconferma anche la nebbiosa situazione in cui si colloca la Serbia di Vučić sul palcoscenico internazionale. Il Presidente serbo ha infatti sempre dichiarato di volere entrare nell’Unione Europea, sostenendo a più riprese che il futuro del Paese risieda proprio a Bruxelles. Eppure Vučić non ha mai smesso di guardare a Oriente: i suoi rapporti con Putin sono effettivamente sempre stati solidissimi, tanto che la Serbia è l’unico Paese europeo a non avere mai adottato sanzioni contro la Russia dopo l’aggressione rivolta all’Ucraina, e, in aggiunta a ciò, la Serbia si è sempre più avvicinata alla Cina di Xi Jinping. Le relazioni bilaterali tra i due Paesi sono infatti diventate sempre più strette a partire dall’inizio del secondo decennio del 2000, tanto che nel 2016 è stata siglata una dichiarazione congiunta di partenariato, rinsaldata questo ottobre con la firma di un Accordo di libero scambio, decisione certamente controtendenza rispetto a quelle europee, oltre che italiane.
La Serbia di Vučić ha sempre avuto entrambi i piedi in una scarpa. Le richieste dell’Unione Europea, dopo tutto, vanno contro gli interessi che lo stesso Presidente porta avanti sin dalla sua entrata in politica, in particolare se si guarda alla questione del Kosovo. Una delle condizioni inappellabili poste dall’UE alla Serbia per l’annessione all’Unione è infatti quella di riconoscere l’indipendenza del Kosovo, accettando l’Accordo sulla normalizzazione steso questo febbraio. Vučić ha sempre temporeggiato sulla questione kosovara ed è sempre stato promotore di una politica contro l’indipendenza del Kosovo, sostenendo insistentemente l’appartenenza della regione alla Serbia e muovendo ben più di una volta le truppe sul confine. Gli ultimi scontri si sono verificati proprio questo settembre, e in seguito a essi la Presidentessa della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha ribadito a Vučić che l’annessione della Serbia all’UE passa necessariamente dal riconoscimento del Kosovo. A tal proposito, il lancio delle elezioni anticipate arrivate questo novembre ripete lo stesso pattern descritto da Antonela Rehi, essendo arrivato poco dopo le richieste da parte di Ursula von der Leyen di siglare il patto di riconoscimento del Kosovo, e la prevedibile vittoria dell’SSN conferma la situazione di stallo in cui la regione versa da anni.
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