L’embargo imposto dai paesi occidentali alla Russia non ha ottenuto i risultati sperati. Blandi i risultati delle misure adottate già prima del conflitto in Ucraina, e dall’inizio del 2022 la situazione non è cambiata. I media occidentali si ostinano a fornire notizie contraddittorie sull’economia russa. A febbraio le stime del Fondo Monetario Internazionale parlavano di calo dell’economia di 2,3 punti percentuali. E le stime del World Economic Outlook si limitavano ad una crescita prossima allo zero: 0,3%. Altre analisi hanno preannunciato il crollo dell’economia di Mosca. Invece, poche settimane fa, la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo ha dovuto rivedere in rialzo le proprie stime e ha parlato di una crescita del PIL russo pari all’1,5% e addirittura del 3% il prossimo anno.
Anni di embargo e di limitazioni degli scambi con i paesi occidentali che non hanno ottenuto i risultati sperati. Due i motivi: il primo è che la Russia ha ridotto gli scambi verso ovest ma ha aumentato quelli con i paesi amici in Asia, con solo Cina e India che contano 3 miliardi di persone. A questo si aggiunge che anche i paesi che hanno imposto questi “embarghi”, limitazioni sventolate dai leader occidentali, non hanno potuto fare a meno di continuare gli scambi con la Russia in settori importanti come quello dell’energia. E la Russia, nonostante le spese mostruose dovute alla guerra e alla crisi interna, in alcuni settori non ha mai fermato la propria crescita. Sorprendentemente anche grazie agli acquisti di paesi come gli USA.
Da tempo gli Stati Uniti d’America cercano un’alternativa al petrolio e ai combustibili fossili. Alla COP28 in corso a Dubai si sono presentati come capofila (insieme alla Francia) di una coalizione di 22 paesi che pensano di ridurre le emissioni di CO2 ricorrendo al nucleare. I firmatari si sono impegnati a “lavorare insieme per promuovere l’obiettivo globale di triplicare la capacità di energia nucleare a partire dal 2020 entro il 2050”. Obiettivo dichiarato rispettare gli impegni per 1,5°C tracciate da IPCC e IEA. Ma anche non essere più schiavi dei combustibili fossili come il petrolio o il gas naturale. Per questo i firmatari dell’accordo intendono “sostenere lo sviluppo e la costruzione di reattori nucleari, come piccoli reattori modulari e altri reattori avanzati per la produzione di energia, nonché applicazioni industriali più ampie per la decarbonizzazione, come la produzione di idrogeno o combustibili sintetici”. Anche il Belgio, che pure non ha firmato l’accordo, pare essere molto interessato allo sviluppo dell’atomo: ha annunciato che a marzo prossimo ospiterà il primo vertice mondiale sul nucleare.
Essere indipendenti dai combustibili fossili non vuol dire essere autonomi, tanto meno essere liberi dalla dipendenza dalla Russia. Per far funzionare i reattori delle centrali nucleari sono necessarie grandi quantità di uranio arricchito, e già prima della guerra in Ucraina paesi come gli USA acquistavano quasi metà del loro fabbisogno di uranio proprio dalla Russia, come pure da Kazakistan e Uzbekistan. A due anni dall’inizio del conflitto gli USA non sembrano essere riusciti a trovare alternative. Per questo, nonostante le sanzioni, continuano a comprare uranio arricchito dalla Russia. Lo stesso stanno facendo molti altri paesi occidentali: dopo aver sventolato chiusure delle frontiere commerciali ed embarghi, hanno continuato a comprare da Mosca pregando la Russia di non interrompere le forniture di uranio.
L’esempio più sorprendente è proprio lo scambio di questa materia prima con gli USA. Secondo il Wall Street Journal, solo nell’ultimo anno le imprese statunitensi hanno acquistato dalla Russia uranio arricchito per circa un miliardo di dollari. Circa il 25% di tutto l’uranio arricchito utilizzato dalla rete di centrali nucleari americane viene fornito dal colosso russo Rosatom. Ad ammetterlo, a novembre, è stata la vicesegretaria per l’Energia nucleare del Dipartimento dell’energia (DOE), Kathryn Huff, la quale ha definito “preoccupante che circa il 20% del combustibile utilizzato dalla flotta di reattori nucleari statunitensi venga fornito attraverso contratti di arricchimento con fornitori russi”.
Diversi i paesi che estraggono uranio. Ma quello utilizzato dalle centrali deve essere sottoposto ad un “arricchimento”, processo che avviene in un numero ristretto di paesi. Un mercato globale controllato per quasi il 50% dalla Russia. Per questo motivo, secondo la Huff, è “fondamentale liberarci dalla nostra dipendenza, soprattutto dalla Russia. Senza interventi la Russia continuerà a mantenere questo mercato”.
Gli scambi di uranio arricchito dalla Russia verso gli USA non sono una novità : i primi risalgono addirittura al secolo scorso, alla fine della Guerra Fredda, quando venne lanciato il programma Megatons to Megawatts. Per privare la Russia di materiale utilizzabile per la costruzione di armi atomiche gli USA firmarono con la Russia un accordo che prevedeva di utilizzare centinaia di tonnellate di uranio russo per alimentare centrali nucleari statunitensi. Dopo il disastro di Fukushima molti paesi decisero di sospendere la costruzione di centrali nucleari. Questo generò il crollo del mercato dell’uranio arricchito. La Russia, invece, non si tirò indietro, cosa che rese la Rosatom più potente di prima, essendo venuta meno parte della concorrenza. La prova? Secondo i dati del governo degli Stati Uniti, nella prima metà del 2023, dopo un anno di guerra in Ucraina, gli USA erano ancora costretti ad acquistare dalla Russia circa il 25% dell’uranio arricchito necessario per le loro centrali.
Le nuove politiche volute da Biden potrebbero peggiorare la situazione: Rosatom, grazie ad una sua controllata, è la principale azienda al mondo in grado di fornire grandi quantità di un nuovo tipo di carburante chiamato “haleu”, essenziale per alimentare la nuova generazione di reattori più piccoli ed efficienti. Nessuna delle concorrenti, ovvero le francesi Orano e Urenco o il consorzio britannico, tedesco e olandese, sembrano in grado di offrire la stessa quantità e qualità di uranio arricchito.
Recentemente Biden ha chiesto al Congresso oltre due miliardi di dollari per incentivare le imprese nucleari statunitensi ad aumentare la capacità di arricchimento e di conversione. “Abbiamo davvero bisogno di aumentare la capacità in quella parte della catena di approvvigionamento” ha dichiarato Maria Korsnick, amministratore delegato del Nuclear Energy Institute. Secondo la US Energy Information Agency, negli Stati Uniti sono 93 i reattori commerciali operativi in 54 centrali nucleari. “È necessario firmare da 5 a 10 contratti per la costruzione di nuovi reattori entro i prossimi due o tre anni, se si vuole che gli Stati Uniti raggiungano gli obiettivi climatici del 2050”, ha detto Korsnick. “Altrimenti non raggiungeremo il decollo commerciale necessario per ottenere la quantità di energia pulita di cui abbiamo bisogno per il 2050”. E per alimentare queste centrali potrebbe essere necessario comprare sempre più uranio arricchito dalla Russia. O, in alternativa, cominciare a produrlo negli USA.
La questione “nucleare” potrebbe diventare esplosiva per la campagna elettorale di Biden. Alle ultime presidenziali vinse promettendo agli elettori che avrebbe fatto l’opposto di quello che diceva Trump, accusato di essere iper-nuclearista. Ora, con le elezioni presidenziali alle porte, il tema del nucleare potrebbe rivelarsi l’ennesimo cambio di rotta di Biden. Un cambiamento che potrebbe non piacere agli elettori: non è un caso se Biden e Trump sono testa a testa nei sondaggi. La decisione di Biden di potenziare il nucleare e rendere gli USA ancora più dipendenti dalla Russia, potrebbe non piacere agli elettori. E contribuire a costargli la Casa Bianca.
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