Davanti ai fatti di Israele di questi giorni non possiamo che ritrarci inorriditi per la ferocia con cui gli sgherri di Hamas hanno seviziato e ucciso cittadini israeliani che se ne stavano tranquilli a festeggiare a suon di musica. Il modo in cui si è svolta l’azione non lascia adito a dubbi: il piano era stato progettato e preparato con cura ed era anche già stato deciso cosa fare nei confronti di tutti quegli inermi giovani. Non ci sono giustificazioni di alcun genere per quanto è accaduto e anche le possibili spiegazioni politiche assumono poco senso.
Ci sono oggi quelli che spiegano quell’odio manifesto con le pessime condizioni di vita cui sono sottoposti i palestinesi da parte dei governi israeliani, ma cercare di attribuire solo ad Israele le cause dell’attuale situazione in quella porzione di mondo è un esercizio fuorviante, e probabilmente, fatto in malafede.
È fuor di dubbio che i vari governi che si sono succeduti a Tel Aviv abbiano delle grandi responsabilità per non aver mai consentito una qualche soluzione al problema della coesistenza con i palestinesi. Ed è altrettanto evidente che la continua apertura di nuovi insediamenti abusivi in Cisgiordania (legalizzati a posteriori da governi compiacenti) con relativo sgombero dei precedenti occupanti palestinesi non poteva che essere di insormontabile ostacolo ad ogni possibile futura negoziazione. Perfino quei palestinesi che vivono dentro i confini ufficiali di Israele, pur mantenendosi in condizioni di vita più che accettabili e migliori di molti arabi nati e cresciuti in altri Paesi medio-orientali, non potevano considerarsi appagati vista la loro condizione di cittadini di serie B.
Tuttavia anche da parte dei vari rappresentanti del popolo palestinese si è fatto di tutto, fin dall’inizio, per impedire che un qualsiasi accordo potesse essere raggiunto. La cosa non riguarda solo Hamas, sicuramente tra i peggiori protagonisti del dramma Medio Orientale. Anche l’Olp di Abu Mazen, e prima di lui di Arafat, ha sempre dichiarato di voler trovare una soluzione comune, ma quando una soluzione sembrava raggiungibile hanno sempre fatto marcia indietro, smentendo perfino ciò che avevano concordato. Di là da alcune dichiarazioni apparentemente concilianti espresse in inglese per i pubblici occidentali, quando i vari capi si esprimevano in arabo le loro affermazioni erano piene di insulti e inviti all’odio contro “gli occupanti ebrei”. Ne sono stato testimone durante una visita in una scuola per ragazzi palestinesi gestita dall’Onu (sic!) dove ho notato cartelli sui muri delle aule che invitavano quelle nuove generazioni ad odiare tutti gli ebrei, a prepararsi per cacciarli definitivamente da quella che consideravano la loro terra.
Già lo scorso anno, in un articolo per Linkiesta, avevo fatto notare che la leadership dell’Olp aveva procrastinato le elezioni temendo una vittoria di Hamas anche in Cisgiordania, e gli stessi servizi israeliani avevano messo in guardia dal rischio di una pioggia di missili nel caso non si fossero tenute le elezioni.
Come non bastasse, nel documento istitutivo di Hamas non c’è mai stato spazio per una qualche soluzione (due Stati o altro) che non fosse la “sparizione di Israele” dalla faccia della terra.
Cercare di identificare chi tra i due, israeliani o palestinesi, abbia un po’ più di ragione o chi abbia certamente torto è una sfida inutile: entrambi hanno le loro ragioni ed entrambi sono nel torto. Pure se il recente massacro non avesse mai avuto luogo, il loro reciproco odio era ed è tale che provare a ricondurli a un ragionamento di semplice buon senso o di accettabile compromesso si è dimostrata una battaglia impossibile.
Sempre su Linkiesta, sottolineando la realtà che non vede l’interesse ne’ degli uni ne’ degli altri ad accordi di pace a cominciare dalla soluzione dei “due Stati”, indicavo anche l’impercorribilità della soluzione di un unico Stato israeliano che includesse tutti i Territori e la popolazione ivi residente come cittadini con uguali diritti, indipendentemente dalla loro etnia o religione: se i palestinesi, in base al “diritto al ritorno”, si trasferissero in Israele, cambierebbero sensibilmente il rapporto numerico tra le due etnie facendo diventare maggioranza quella araba sopra quella ebraica, con le ovvie conseguenze politiche. L’altolà a tale ipotesi è arrivata anche dal governo Netanyahu, il quale nel 2018 ha inserito nella “Legge Fondamentale” che “Israele è uno stato ebraico”, cioè non tanto della nazione israeliana, bensì del “popolo ebraico”. I palestinesi (ma non solo) verrebbero quindi implicitamente ad essere “ospiti”, e non accetterebbero ciò che viene percepita come una “discriminazione” o perfino novello “apartheid”.
Tutto ciò vuol dunque dire che noi dovremmo starcene lontani e non parteggiare per l’uno o l’altro? Sarebbe bello, ma non utile né per loro né per noi. Se un nostro caro amico o un nostro consanguineo, magari pur palesemente in torto, si trovasse coinvolto in una rissa e noi capissimo che ogni tentativo di placare gli animi si rivelasse impercorribile, è ovvio che non potremmo che intervenire in difesa di chi ci è più prossimo. Nel caso del conflitto di cui parliamo mi sembra evidente che, pur con tanta simpatia per i poveri palestinesi (ma non verso i terroristi di Hamas), il nostro “prossimo” è certamente Israele. È con i suoi abitanti che condividiamo maggiori basi culturali, è con loro che ci sentiamo più vicini, è il loro regime democratico quello che più ci assomiglia (escludendo, tuttavia, i loro fanatici religiosi, gente con cui ogni vicinanza è impossibile e che per il loro comportamento intollerante e settario suscita piuttosto il nostro ribrezzo). Se mai qualcuno ancora avesse dei dubbi, si guardi le immagini di cosa i criminali di Hamas hanno freddamente, e consapevolmente, fatto a bambini, donne e giovani di tutte le età appena superato il confine.
* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali
FONTE: https://www.notiziegeopolitiche.net/hasmas-e-israele-chi-ha-davvero-interesse-alla-pace/
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