Un dilemma, anzi un “trilemma”: questo quanto si trova di fronte l’Occidente a guida statunitense in Burkina Faso. Abbandonare un regime golpista nonostante la minaccia dell’insorgenza jihadista? Oppure sostenerlo nonostante il pessimo segnale politico che ciò comporterebbe dopo il recente golpe in Niger? O, infine, mantenere lo status quo lasciando però spazio agli arci-rivali della Wagner e, dunque, alla Russia? Nella geopolitica a frattali dell’Africa subsahariana non c’è spazio per scelte di comodo.
Gruppi jihadisti come Ansar ul-Islam, formazioni affiliate ad Al Qaeda e la filiale locale dello Stato Islamico hanno da tempo portato nel Sahel il cuore delle loro attività. Il Burkina Faso si trova tra l’incudine e il martello: da un lato l’insorgenza jihadista che prosegue da otto anni e negli ultimi mesi ha preso vigore, dall’altro la delicata situazione internazionale della giunta militare guidata da Ibrahim Traoré. Dopo aver rovesciato il predecessore Paul-Henri Sandaogo Damiba, salito al potere col primo golpe del gennaio 2022, con il colpo di Stato del settembre 2022 il giovane Traoré, capitano 34enne dell’esercito, è stato proclamato dai militari ribelli insorti in quell’occasione presidente ad interim. Ha ereditato una situazione securitaria sempre più deteriorata in cui la sicurezza del Burkina Faso è stata in larga parte appaltata a milizie esterne, prima tra tutte la sempre più preponderante Wagner.
Proprio il 29 luglio la Russia ha, a tal proposito, riaperto l’ambasciata a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso. Assieme al Mali, il Burkina Faso è oggi il Paese ove le giunte militari manifestano il maggior spirito anti-occidentale e filorusso, un canovaccio su cui Washington e l’Unione Europea temono che anche la giunta nigerina si possa armonizzare. Ma proprio negli stessi giorni, il Burkina Faso ha chiesto un rilancio dell’assistenza securitaria a Washington per affrontare il duro emergere dell’escalation jihadista.
Alla Casa Bianca i funzionari vicini al presidente Joe Biden, nota il Washington Post, sono enormemente preoccupati del possibile collasso securitario del Paese: “l’amministrazione teme che il Burkina Faso diventerà una porta d’accesso per il terrorismo nei paesi costieri dell’Africa occidentale” se l’insorgenza jihadista non sarà arginata e ci sono pochi dubbi sul fatto che la Wagner e la Russia vogliano un Paese sostanzialmente debole. Il quotidiano della capitale americana sottolinea che “in telefonate urgenti e incontri privati, alti funzionari burkinabè hanno fatto appello ai diplomatici stranieri per chiedere aiuto per sconfiggere gli insorti” in un conflitto ove però nessuna parte in causa sta risparmiando efferatezza. A aprile a Aourema, nel nord del Paese, 6 militari burkinabé sono stati uccisi in un attentato che ha causato complessivamente 75 morti.
In risposta, l’esercito di Ouagadougou è stato accusato di aver promosso una rappresaglia a tutto campo il 20 aprile successivo. Entrando nel villaggio di Karma, sperduto avamposto di 400 anime nel nord-ovest del Paese, il 3° battaglione della Brigata d’Intervento Rapido dell’esercito nazionale ha compiuto un efferato eccidio in quella che era ritenuta essere una roccaforte ribelle. Il villaggio è stato dato alle fiamme e la popolazione dispersa o uccisa: 156 persone sarebbero state giustiziate a sangue freddo, nell’ultima e più grave manifestazione dello scarso rispetto per i diritti umani del regime burkinabè.
Gli Stati Uniti si trovano dunque di fronte a un grave problema securitario. Dopo la caduta di fatto del Mali nelle braccia della Russia, lo slittamento della Repubblica Centrafricana, l’oscillare del Ciad e la sfida del Niger, anche il Burkina Faso è una pedina-chiave. Si riscopre a tutto campo il peso decisivo dell’Africa e delle scelte politiche complesse che questo continente in subbuglio impone. Il Washington Post parla di riflessioni a tutto campo negli apparati Usa sul Burkina Faso. Da un lato si discute del trasferimento di armamenti come di un’opzione non sostenibile per il rischio di uso sui civili, dall’altro la corsa ideale al fianco di Ouagadougou può essere nella direzione di una più efficace campagna di addestramento alla controinsorgenza dell’esercito locale. In cambio, Biden e i suoi potrebbero chiedere a Traoré garanzie sull’effettiva apertura a svolgere elezioni democratiche entro il luglio 2024 come promesso dopo il golpe autunnale.
Un’opzione fattibile? Ad oggi gli spazi di manovra per gli Usa restano pochi. Il ragionamento cinicamente pragmatico della Russia e della Wagner ha spiazzato l’Occidente in più campi. Ma la prova generale di quello che l’Occidente può fare per dialogare coi golpisti nigerini si può vedere nella capacità che Washington avrà di saper chiedere formali contropartite al governo militare del Burkina Faso di fronte a una fase di necessità acuta di quest’ultimo. Affidarsi totalmente ai volubili mercenari russi non è nemmeno nel pensiero di un regime tutt’altro che critico di Mosca come quello installato a Ouagadougou, ma resta tutta da valutare la dimensione del “desiderio di Occidente” residuale nella regione anche di fronte a sfide esistenziali come l’insorgenza jihadista. Che nel buco nero del Sahel potrebbe espandersi in futuro. Dalla risposta alla crisi burkinabé si capiranno dunque le leve negoziali dei Paesi occidentali per gestire i rapporti con governi di dubbia legittimità ma chiamati a gestire sfide comuni anche per la sfera euroatlantica. E che il recente passato insegna essere impossibili da ignorare.
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