Qualsiasi ragionamento concernente le relazioni tra l’Africa e le grandi dinamiche della globalizzazione non può prescindere da uno studio del fenomeno, largamente sottovalutato quando non volutamente eluso nelle analisi mediatiche e politiche, dell’accaparramento di terreni produttivi da parte di aziende e fondi sovrani di Paesi esterni al continente, principalmente occidentali ed asiatici.
In particolare, col termine anglosassone land grabbing è stata definita la corsa scatenatasi all’accaparramento di terre in Paesi in via di sviluppo, in larga misura africani, a seguito della crisi mondiale dei prezzi alimentari connessa alla buriana economica del 2007-2008[1]. La combinazione tra l’instabilità finanziaria che portò al dissesto il mercato dei titoli derivati legati al cibo, l’esposizione delle agricolture dei Paesi economicamente più deboli alla competizione internazionale per i trattati di libero scambio[2] e il lungo processo di aumento della domanda globale per cibi ad alto consumo di risorse causò un effetto domino che condusse a fluttuazioni irregolari e imprevedibili dei prezzi delle materie prime e dei prodotti agroalimentari negli anni tra il 2007 e il 2012. Il prezzo dei cereali, ad esempio, aumentò di circa il 50% tra la fine del 2007 e la prima metà del 2008 sia in Europa che in Africa[3].
Le dinamiche dell’accaparramento della terra
Il tema della sicurezza alimentare divenne dunque sempre più centrale nel calcolo di governi, investitori e operatori politico-economici nei Paesi maggiormente sviluppati, che gradualmente avviarono un processo di acquisizioni di terreni negli Stati in via di sviluppo, in prims africani, per trasformarli in centrali operative per una produzione agricola destinata all’esportazione verso gli Stati di origine degli investimenti. L’accaparramento della terra si è dunque sviluppato come processo capace di autoalimentarsi, proteiforme, strisciante: la definizione anglosassone land grabbing è un classico termine “pigliatutto”, non fa riferimento a soglie particolari di valore o estensione dei fondi alienati dai Paesi venditori o a tipologie di contratto particolari, per quanto in quest’ultimo campo sia predominante la forma dell’affitto a lungo o lunghissimo termine. Piuttosto, il concetto di “accaparramento di terreni” segnala il dinamismo del fenomeno, la massiccia conversione di una quantità cospicua di capitali erratici e inerzia economica verso una nuova scramble for Africa. Il continente africano, nella sua vasta e mediamente sottopopolata porzione sudafricana, è interessato infatti da circa il 70% dei fenomeni di accaparramento di terreni[4].
Dunque, l’accaparramento di terreni non è un fenomeno negativo in sé, quanto piuttosto per il modus operandi con cui viene condotto, per le finalità penalizzanti per i Paesi di destinazione degli investimenti e per il suo sviluppo in relazione alle dinamiche alimentari globali. Nel 2018 Focsiv, la federazione dei volontari nel mondo e Cidse, l’alleanza delle Ong cattoliche internazionali, hanno realizzato il rapporto I padroni della Terra”, collaborando con Coldiretti, principale sindacato agricolo italiano. Nell’analisi, presentata il 27 aprile 2018 al Villaggio Contadino di Bari si legge che “l’accaparramento di terre fertili, è andato in crescendo a danno delle comunità rurali locali; a perpetrarlo Stati, gruppi e aziende multinazionali, società finanziarie ed immobiliari internazionali che in questi anni hanno acquistato o affittato 88 milioni di ettari di terre in ogni parte del mondo, un’estensione pari a 8 volte la grandezza dell’intero Portogallo o tre volte quella dell’Ecuador. La maggior parte dei contratti conclusi, transnazionali e nazionali, riguardano gli investimenti in agricoltura, ripartiti in colture alimentari e produzioni di biocarburanti, a seguire lo sfruttamento delle foreste e la realizzazione delle aree industriali o turistiche[5]”.
Tale rapporto ha aperto un sentiero di sviluppo culminato nel 2019 in una seconda edizione, in cui si approfondiscono i temi di maggiore interessa sul fenomeno, ritenuto essenzialmente una manifestazione dell’approccio estrattivista del capitalismo finanziario verso i beni ambientali, nominalmente da ritenere risorse comuni e non escludibili. La cacciata delle comunità locali dai terreni accaparrati, ad esempio, rientra nell’ordinaria amministrazione di questi processi, così come la lasca attenzione per il rispetto delle norme di tutela del lavoro e delle disposizioni anti-inquinamento, peraltro generalmente farraginose, nei Paesi oggetto d’interesse.
Il capitalismo finanziario all’assalto dell’ambiente
L’accaparramento della terra è un fenomeno che si inserisce pienamente nel grande filone dell’approccio alle risorse naturali tipico del finanzcapitalismo. Entrambe le grandi utopie della seconda metà del Novecento, il comunismo di stampo sovietico e il neoliberismo di stampo angloamericano, hanno prodotto un deleterio aggravamento della “questione ambientale”.
Il socialismo reale ha prodotto un industrialismo irrigidito e un’economia eccessivamente schematica che ha contribuito a creare alcuni dei disastri ambientali più irreversibili. Basti pensare al lago d’Aral, ma non solo: il caso di città come la ceca Ostrava, strangolata dai residui tossici dell’antico impianto industriale, è altrettanto istruttivo. Il capitalismo finanziario lasciato privo della guida degli Stati ha fatto ancora peggio e ha prodotto la corsa allo sfruttamento dei beni ambientali, la deregulation nello sfruttamento di numerosi beni pubblici (come hanno spiegato David Harvey e Luciano Gallino) e le catene mondiali del valore del settore agroalimentare hanno aggravato l’impronta ecologica come non mai. La corsa all’accaparramento della terra è stato il risultato di un’esplosiva ripresa della necessità di cercare valore e impiego per il capitale accumulato nel settore, a cui il sovrapporsi della questione della “sovranità alimentare” (resa impellente dalla finanziarizzazione del settore agroalimentare) ha dato ulteriore spinta.
In questo processo, il paradosso più lacerante in cui si impiglia il finanzcapitalismo è che la creazione di ricchezza finanziaria, ottenuta dalla cosiddetta valorizzazione di risorse naturali, è in realtà ampiamente sorpassata dalla distruzione permanente della ricchezza ecologica del pianeta (risorse ittiche, foreste e altri biomi a rischio). Nel caso dell’accaparramento della terra, a questo va aggiunta la distruzione dei potenziali e più prossimi mercati di sbocco attraverso la riduzione della sicurezza alimentare e, di converso, della stabilità interna dei Paesi che cedono terreni destinati alla produzione per l’esportazione.
Autori come i già citati Luciano Gallino (in Finanzcapitalismo) e David Harvey (in Breve storia del neoliberismo) e il filosofo conservatore britannico Roger Scruton (in Green Philosophy), nonostante la differenza nella visione del mondo e nella formazione personale, hanno comunemente posto l’accento sul fatto che la civiltà del denaro ha stravolto, su scala globale, il rapporto tra uomo e natura, tra sistema sociale e ambiente. L’accaparramento della terra trasforma aree produttive in riserve di valore a uso e consumo delle catene globali dell’industria agroalimentare.
Analizzando per Osservatorio Globalizzazione il pensiero di Gallino, il professor Giuseppe Gagliano ha scritto[6] che “il finanzcapitalismo sta conducendo un assalto globale al sistema agro-alimentare del mondo. Lo scopo non è quello di assicurare al mondo un’alimentazione migliore e più sicura, ma quello di estrarre valore e profitto da questo settore. Tra i fattori che maggiormente hanno favorito questo fenomeno vi è senz’altro la formazione di monopoli e oligopoli, avvenuta in forza di ondate di fusioni e acquisizioni di società concorrenti che controllano completamente il mercato degli alimenti di base. In tali operazioni il ruolo propulsivo e non solo ausiliario della finanza ha un peso determinante. Scendendo lungo la catena del sistema agroalimentare si osserva che un quarto del mercato mondiale degli alimenti confezionati e delle bevande è controllato da appena una decina di industrie, come la svizzera Nestlè, l’americana Kraft, l’olandese Unilever, la francese Danone”. Insomma, secondo Gallino il finanzcapitalismo “ha applicato il concetto di valorizzazione delle risorse naturali. In concreto però la valorizzazione ha assunto principalmente la forma di abbattimento delle foreste e la trasformazione di risorse rinnovabili in risorse non rinnovabili, e di fatto sfruttate sino alla consunzione[7]”.
Vincitori e vinti della corsa alla terra
Quanto tracciato nel commento di Gagliano è altresì vero per l’accaparramento della terra, fenomeno in cui le specifiche indicate dallo studioso comasco si riscontrano in maniera palese. Per ciò che concerne il caso specifico dell’Africa, quella dell’imposizione economica del capitalismo oligopolistico è storia tristemente nota. A livello internazionale, i dieci Paesi da cui provengono i maggiori produttori di investimenti nell’accaparramento della terra, spiega il rapporto Focsiv elaborato su dati Land Matrix[8], sono principalmente Paesi ad alto reddito: cinque importanti economie occidentali compaiono nei primi dieci posti della classifica, con in testa gli Stati Uniti (13,4 milioni di ettari presi in gestione da entità economiche a stelle e strisce nel mondo), seguiti dal Canada (terzo con 10,7 milioni), dal Regno Unito (quarto con 7,9 milioni), dalla Spagna (sesta con 4,7 milioni) e dalla Svizzera (decima con 4 milioni). Complementare è la presenza dei Paesi asiatici, per motivazioni afferenti sia alla necessità di aumentare la base alimentare nazionale che a trovare impiego a capitali resi dinamici dalla crescita economica: ecco perché nella parte alta della classifica si trovano Malesia (quinta con 5,9 milioni di ettari), Corea del Sud (settima con 4,5 milioni), India (ottava con 4,1 milioni) e, soprattutto Cina.
La natura speculativa di numerosi investimenti e l’intervento delle più avanzate tecniche di elusione finanziaria e fiscale è riscontrabile constatando la presenza di celebri paradisi fiscali nella lista dei Paesi che concorrono alla corsa all’accaparramento della terra. Se già la Malesia e la vicina Singapore si prestano come piattaforme di questo tipo, ancora più evidente è constatare come, principalmente nel 2018, al grande gioco dell’accaparramento abbiano concorso anche società originarie, formalmente, delle Bermuda, delle Isole Vergini, delle Mauritius, delle Isole Cayman e del Liechtenstein, che offrono condizioni finanziarie e fiscali estremamente vantaggiose per attrarre i capitali degli operatori internazionali[9]. Oltre alle economie occidentali, ai rampanti Paesi asiatici e ai trasparenti paradisi fiscali una quarta categoria di investitori nei terreni dei Paesi in via di sviluppo è rappresentata dagli Stati del Golfo Persico, che sentono come precipua la sfida della sovranità alimentare e vogliono garantirsi l’approvvigionamento nel settore, esternalizzando la produzione di cibo.
Per quanto concerne i Paesi destinatari della corsa alla terra, a essere principalmente interessati sono quelli facenti parte del continente africano. Il Paese più preso di mira al mondo, è bene ricordarlo per l’immanenza della questione amazzonica, è il Perù (18,2 milioni di ettari accaparrati) ma l’Africa presenta cinque dei dieci Paesi in testa tra i ricettori di investimenti nell’accaparramento[10]: Repubblica Democratica del Congo (seconda, 8,1 milioni di ettari), Sudan (sesto, 4,3 milioni di ettari), Sud Sudan (settimo, 4,2 milioni), Madagascar (ottavo, 4 milioni di ettari) e Mozambico (decimo, 3,9 milioni di ettari). Le statistiche per il 2019 parlano di una corsa in rallentamento per quanto riguarda il numero di nuovi acquisti[11] a causa dell’aumento della consapevolezza legislativa dei Paesi oggetto d’investimento (Mali e Etiopia, ad esempio), dell’assestamento dei prezzi delle materie prime e di un fisiologico passaggio degli investitori alla fase di monetizzazione. In compenso, la maggior consapevolezza del fenomeno ha permesso di aumentare gli approfondimenti analitici sull’impatto economico e sociale del land grabbing, principalmente in materia di alterazione del rapporto tra i popoli indigeni e la loro terra natia.
Accaparrare la terra è accaparrare il futuro della gente che la abita, danneggiare le sue tradizioni e danneggiare una cultura che è anche espressione pratica. Concentrare nelle mani di pochi produzione e esportazione agraria, come ha da tempo fatto notare uno studioso di peso come Raj Patel, impoverisce le varietà coltivabili, la diversità agraria[12]. Questo è stato il caso dei più eclatanti esempi di accaparramento di terreni dell’anno passato, oggetto del rapporto Focsiv-Cidse. In Nigeria, ad esempio, “la Okomu Oil Palm Company Plc, approfittando del clima favorevole agli investimenti garantito dal governo dello Stato di Edo, ha dato il via alla realizzazione di una piantagione di palma da olio di 11.400 ettari, che si estende sul territorio di oltre 10 comunità . Il governatore dello Stato di Edo, Godwin Obaseki, ha dichiarato che sta promuovendo riforme di ampio respiro per aprire il territorio agli investimenti, assicurando il proprio impegno per attrarre ancora più investitori. Inoltre, ha affermato che avrebbe lavorato con i governi degli Stati produttori di palma da olio in Nigeria, come Ondo e Cross River, per chiedere l’istituzione di un consiglio per la palma da olio. La Okomu Oil Palm Company Plc, le cui azioni sono detenute principalmente dalla compagnia belgo-lussemburghese Socfin, è continuamente accusata di ledere i diritti delle comunità locali[13]”.
Caso particolare, invece, quello che ha riguardato la povera e problematica Repubblica Democratica del Congo, in cui il conglomerato minerario svizzero-britannico Glencore ha leso i diritti dei cittadini del Paese inquinando i terreni agricoli vicini a una serie di siti di estrazione.
Esempio virtuoso di gestione del terreno nazionale è invece l’Etiopia, in cui le imprese nazionali attraverso 60 accordi controllano il 49,9% dei fondi dati in concessione per attività agricole di ampio respiro (complessivamente vicini a 2 milioni di ettari), ma in cui esistono grandi criticità legate alla contesa per le risorse idriche e alla poco limpida attività dei fondi sauditi.
Conclusioni
Per l’Africa, continente che le proiezioni più affidabili prevedono destinato a continuare a lungo la vertiginosa crescita demografica, recuperare la sovranità sui terreni contesi dal capitale estero sarà di vitale importanza nel proseguimento del XXI secolo. L’accaparramento della terra è una delle meno note ma tra le più fondamentali minacce all’indipendenza, già lasca e labile, delle nazioni africane nel futuro prossimo. Perché, in fondo, questa è la tragedia di quello che è stato chiamato a lungo il “Continente nero”: vedere proseguire anche dopo la fine formale del colonialismo una storia di dipendenza. Dalle nazioni del Sahel in cui imperversa il capitale finanziario francese al Corno d’Africa oggetto dell’ingerenza politico-strategica di diversi attori, passando per la crescente e dinamica penetrazione cinese e l’osservazione interessata del teatro africano da parte dei decisori strategici di Washington le sorti dell’Africa sono per ora un prodotto di scelte esogene.
Togliere terra alla disponibilità dei governi africani è il versante materiale della medaglia, il complemento della carenza di progettualità e capacità strategica sul piano politico. In un continente in fase di espansione demografica, che vivrà al tempo stesso una crescente pressione socio-economica per l’aumento di dimensione delle classi medie, per il desiderio di realizzazione educazionale, sociale e politica di una base di popolazione sempre più ampia e per gli effetti dei contatti con le diaspore d’oltremare è inconcepibile pensare a un futuro in cui la sovranità alimentare sia messa a repentaglio o addirittura esclusa. Il massacro del Ruanda del 1994 insegna a cosa possa portare l’esplosione di crisi rimaste a lungo latenti nel continente africano. Nell’ultimo decennio il capitale globale ha leso la sovranità africana nel contesto della finanziarizzazione della sicurezza alimentare di miliardi di persone. I governi africani dovranno fare presto o tardi i conti con l’insostenibilità di tale modello.
Risuonano sempre più forti, sempre più profetiche, sempre più pressanti per i decisori politici le parole pronunciate oltre trent’anni fa da Thomas Sankara, il presidente del Burkina Faso che aveva provato a svincolare il suo Paese dal giogo postcoloniale, in un processo politico in cui rafforzamento delle condizioni di vita, alfabetizzazione della popolazione e riconquista della sovranità alimentare e ambientale dei burkinabe erano considerate necessità interconnesse. Poco prima di essere assassinato nel colpo di Stato che pose fine al suo progetto riformatore Sankara pronunciò ad Addis Abeba uno storico discorso di fronte ai leader dell’Organizzazione per l’unità africana (Oua). Era il 29 luglio 1987, e dopo aver attaccato a testa bassa il sistema del debito estero Sankara presentò la sua storica massima: “Facciamo sì che il mercato africano sia davvero il mercato degli africani. Produrre in Africa, trasformare in Africa e consumare in Africa. Produciamo ciò di cui abbiamo bisogno, e consumiamo quel che produciamo invece di importarlo[14]”. Di fronte alla marea montante dell’accaparramento della terra azioni improntate a questi fini sono, ancor prima che desiderabili, necessarie.
Nel 2050 il pianeta sarà abitato da circa 10 miliardi di persone, l’Africa da 2,5 miliardi. I minori di 18 anni nel 2030, nel continente africano, toccheranno i 750 milioni e nel 2050 i bambini raggiungeranno il miliardo di unità [15]: di fronte a un’esplosione demografica di tale portata, sottrarre terre ai Paesi africani significa pregiudicare una situazione già socialmente ed economicamente difficile da gestire e potenzialmente alimentare una dinamica di fuga in massa dal continente se le condizioni di vita sempre più precarie, unite alla desertificazione dell’Africa sub-sahariana, porteranno all’esplosione di casi di insicurezza alimentare permanente. I Paesi investitori nell’accaparramento della terra non si rendono conto della possibile nemesi storica rappresentata da un’ulteriore accelerazione dei flussi migratori in direzione Sud-Nord. Fermare l’accaparramento della terra è il modo migliore per garantire ai Paesi africani una possibilità di sviluppo indipendente e, per citare la magistrale lezione di Papa Benedetto XVI, affermare con forza il rispetto del “diritto a non emigrare” dei giovani, dinamici e inquieti popoli africani. La miopia del capitalismo finanziario, una volta di più, si dimostra potenziale causa di smottamenti massicci nel lungo periodo.
[1] The rocketing price of food, The Guardian, 10 maggio 2008.
[2] Martin Khor, The Impact of Trade Liberalisation on Agriculture in Developing Countries: The Experience of Ghana, Third World Network (2008).
[3] Cereal prices hit poor countries, BBC, 14 February 2008.
[4] Klaus Deininger, Derek Byerlee, Rising Global Interest in Farmland: Can it Yield Sustainable and Equitable Benefits?, The World Bank, 2010., p. xxxii.
[5] I padroni della Terra – primo rapporto sul landgrabbing, Comunicato stampa Focsiv, 27 aprile 2018.
[6] Giuseppe Gagliano, Il finanzcapitalismo all’assalto dell’ambiente,Osservatorio Globalizzazione, 30 settembre 2019.
[7] Ibid.
[8] I padroni della terra, Rapporto Focsiv-Cidse 2019, pag. 1.
[9] Land grabbing, Focsiv: “88 milioni di ettari accaparrati dai padroni della terra”, Servizio d’Informazione Religiosa, 27 aprile 2018.
[10] I padroni della terra, Rapporto Focsiv-Cidse 2019, pag. 1.
[11] Ibid., pag. 6.
[12] Raj Patel, I padroni del cibo, Feltrinelli, Milano 2008.
[13] I padroni della terra, Rapporto Focsiv-Cidse 2019, pag. 15-16.
[14] Marinella Correggia (a cura di), Thomas Sankara – I discorsi e le idee, Sankara Editore, Roma, 2003, pag. 105.
[15] Angelo Ferrari, Nel 2050 un bambino su 13 nel mondo sarà nigeriano,Agi, 6 marzo 2019.
FONTE: https://osservatorioglobalizzazione.it/osservatorio/accaparramento-della-terra/
Commenti
Posta un commento
Partecipa alla discussione