Immigrazione, i flussi causati dallo sfruttamento delle lobby sulle risorse dell’Africa

lug 21, 2023 0 comments


Di Franco Cardini

“Da questo luogo e da questo giorno comincia un’era nuova nella storia del mondo”. Tale il lapidario, profetico avviso di Wolfgang Goethe allorché, all’indomani della battaglia di Valmy del 20 settembre del 1792, egli si trovava soldato dell’esercito prussiano in rotta, tra la fame, il freddo e la dissenteria.

Quando cominciano, nel mondo, le ere nuove? È un vecchio problema, e non solo di periodizzazione. Certo, le “ere” storiche sono una convenzione; e ancor più lo sono gli avvenimenti che noi prendiamo volta per volta a simbolo del chiudersi o dell’aprirsi di un’epoca. La presa della Bastiglia del 1789 e la battaglia di Valmy del 1792 continuano tuttavia ad occupare, nel nostro immaginario, un ruolo analogo alla conquista di Granada e alla scoperta del Nuovo Mondo del 1492. Sappiamo bene che si tratta di simboli e di convenzioni: tuttavia, non è solo per abitudine scolastica se restiamo intimamente fedeli all’idea schematica che l’età moderna sia sorta nel 1492 e tramontata, appunto, nel 1789-92 per dar luogo all’età contemporanea.
Quelle due età sono entrambe tuttavia da ascrivere al più ampio e complesso momento della storia di un “Occidente” che rappresenta l’espansione dell’Europa fuori di se stessa, l’imposizione della sua supremazia e l’avviarsi di un’economia-mondo: di quel processo che ormai siamo abituati a definire “globalizzazione” o “mondializzazione”. Tale lungo momento, durato all’incirca mezzo millennio, è forse correttamente o comunque plausibilmente definibile appunto nel suo complesso come “Modernità”: per contro, il da troppi celebrato “Postmoderno” permane in realtà nell’indefinita e indefinibile bruma dei concetti ardui a comprendersi. E si apre un problema destinato a ricevere complesse, contraddittorie risposte: “Occidente”, “egemonia dell’Occidente sul mondo” e “Modernità” sono dimensioni considerabili come sinonimiche?

Al fine di tentare una risposta adeguata concentriamoci su quanto è accaduto e sta accadendo fuori d’Europa. Nella seconda parte del XX secolo presero ad affermarsi, in parallelo con l’avanzare dei processi di “decolonizzazione” politica e di “neocolonializzazione” finanziaria, diplomatica e tecnologica, varie forme di rivendicata o di dissimulata supremazia di movimenti neocristiani o postcristiani successori del colonialismo storico nei confronti d’indigeni “pagani” o “infedeli” o neoconvertiti o rimasti sinceramente e più o meno solidamente cristiani. Ciò era destinato a non rimanere privo di risposte da parte né di alcune componenti del panorama del fondamentalismo religioso africano, né di gruppi religioso-politici in tutti gli altri continenti.
I crimini del colonialismo in tempi sia lontani sia prossimi sono successivamente tornati o stanno tornando a galla: e insieme con essi la realtà che sia stato in buona parte grazie a quei crimini, ben noti almeno alle nostre classi dirigenti, che il mondo occidentale – dopo la “falsa partenza” della rapina spagnola e portoghese dell’oro e dell’argento americani in pieno Cinquecento, che provocarono la “rivoluzione dei prezzi”, cioè l’inflazione galoppante e l’impoverimento generalizzato – ha potuto permettersi, giovandosi del controllo da parte delle lobbies finanziarie e imprenditoriali statunitensi ed europee nonché sovente con la complicità degli stessi governi locali, di gestire la sistematica spoliazione degli interi continenti africano e latinoamericano; da qui, fra l’altro, l’esodo massiccio di migranti indigeni[1] che fuggono da quelle immense aree depresse il suolo e il sottosuolo delle quali rigurgita peraltro di ricchezze drenate. Dalla Bolivia all’Africa occidentale, la gente più miserabile del mondo lascia i suoi paesi dal suolo e dal sottosuolo ricchissimi, al pieno possesso delle cui risorse avrebbero pur diritto secondo la Carta delle Nazioni Unite, per cercare asilo e lavoro in paesi divenuti opulenti grazie alla secolare rapina di quegli stessi disgraziati popoli. E la rapina continua: e non ci sono conferenze internazionali, né denunzie alle Nazioni Unite, né appelli all’opinione pubblica internazionale, né patti intergovernativi bilaterali, né progetti di sviluppo che tengano. Un’obiezione frequente a tutto ciò è che quelle società “non hanno avuto il tempo”, o comunque “non sono state in grado” di conseguire “un adeguato livello di maturità sociopolitica e socioculturale” e in ogni modo la padronanza del know-how necessari a gestire la loro sovranità. Ma appunto il provvedere a far sì che la raggiungessero è stato, per secoli, l’alibi corrente per mantenere l’occupazione: e il “tempo necessario” ci sarebbe ampiamente stato. Anzi, in alcuni casi vi sarebbe tout court: e gli stessi regimi coloniali hanno avuto tutto l’interesse a costruire nei paesi assoggettati un’oligarchia tecnicamente matura e sufficientemente all’altezza delle funzioni di governo. Che poi abbia fatto di tutto per renderla docile e magari corrotta, è un altro discorso. E che, costretti ad andarsene, abbiano in modo più o meno abile e con la complicità di ambienti del paese alla vigilia della liberazione organizzato quello che eufemisticamente si usa definire una “transizione postcolonialistica”, vale a dire un’almeno parziale “ricolonizzazione” de facto, un altro discorso ancora. La violenza, la frode, la corruzione sono stati gli ingredienti strutturali del colonialismo; e il colonialismo una delle colonne portanti della vita, della potenza, della prosperità dell’Occidente; e l’abolizione dello schiavismo, da un certo momento in poi della nostra storia sette-ottocentesca, è stata del tutto funzionale e compatibile con la dinamica dello sviluppo delle nostre classi dirigenti.

Questo atroce non-senso, questo scandalo senza nome, i signori di Wall Street e della World Trade Organization nonché gli elitari frequentatori dei meetings di Davos lo conoscono perfettamente. Esso ha provocato e continua a provocare, ha prodotto e continua a produrre guasti immani, comprese le ricorrenti epidemie di terrorismo, le carestie[2], le guerre e la tragedia senza fine dei boat people, quelli che noi chiamiamo – con un’espressione da disinvolto turismo balneare – “gommoni”.
La casistica dei misfatti coloniali riempirebbe intere grandi biblioteche e quel poco che se ne sa o che se ne potrebbe sapere anche solo informandosene senza sforzo grida da solo vendetta al cospetto di Dio. Ma non parlano mai o quasi mai seriamente di queste cose né la nostra educata e schizzinosa società civile, né i media asserviti alle lobbies alle quali rispondono paese per paese i governi e i partiti che ospitano nel loro stesso seno o tra i loro finanziatori membri dei “comitati d’affari” lobbistici, né la società civile e la scuola che ne sono degne e magari inconsapevoli complici con il loro conformismo uso a distribuire patenti di democrazia e di dittatura a comando e a sbattere mostri in prima pagina in modo da coprire mostri ancor peggiori che si nascondono dietro di essa. Non si parla mai di queste cose.

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