Da giovane manifestante che partecipava alle iniziative contro la guerra in Vietnam sotto l’ambasciata americana a Oslo a segretario più longevo della storia dell’Alleanza Atlantica e suo pontiere nell’ora più calda per la sua tenuta nel post-Guerra Fredda. Quella di Jens Stoltenberg, segretario della Nato dal 2014, è una parabola destinata a non esaurirsi in tempi brevi nel quartier generale atlantico di Bruxelles.
Confermato a luglio per la quarta volta dopo che il suo mandato è stato esteso di un anno, prolungando fino al 2024, dunque un decennio tondo, la sua tenuta delle redini dell’Alleanza, l’ex premier norvegese ha gestito la Nato in un contesto che ha visto lo sdoganamento della guerra all’Isis, l’ascesa alla presidenza Usa di Donald Trump, l’intensificarsi del contrasto tra gli Usa da un lato e Russia e Cina dall’altro e, da ultimo, il conflitto in Ucraina. Causa del prolungamento del mandato dell’uomo che a inizio 2022 era già pronto a passare alla pensione dorata della carica di governatore della Banca di Norvegia. E che invece è rimasto al centro dell’azione.
Un segretario “politico” capace di mediare
Stoltenberg, nel suo mandato, ha svolto un ruolo molto più politico di suoi predecessori come Andreas Fogh Rasmussen e Jaap de Hoop Scheffer, titolari della carica nel decennio precedente la sua ascesa, caratterizzato dall’estensione ai massimi termini del “momento unipolare” prima e dell’affaticamento Usa per le guerre mediorientali poi.
Il politico norvegese classe 1959 ha mediato innanzitutto cercando margini di cooperazioni con la Russia, non vista come un competitor diretto almeno fino al 2017-2018. Questa era la linea del kingmaker della sua elezione nel 2014, la cancelliera tedesca Angela Merkel. Ha poi mediato attivamente tra le posizioni degli Usa, del Regno Unito e dei Paesi dell’Est Europa più ferocemente anti-russi e quelli dell’Europa occidentale sulla corsa al tetto di spesa al 2% del Pil deliberato al vertice gallese del 2014 in cui fu decisa la sua elezione.
International Affairs nel 2021 ha poi studiato attentamente il ruolo di Stoltenberg nel presentare a Donald Trump, dopo la sua ascesa alla Casa Bianca nel 2017, le motivazioni per cui Washington non poteva rinunciare a un ruolo attivo nella Nato: “Stoltenberg”, si è scritto nello studio, “ha abbracciato le critiche di Trump sull’insufficiente spesa per la difesa degli alleati e ha anche espresso gratitudine a Trump per il suo forte impegno per l’Europa” in una visita alla Casa Bianca nel maggio 2018. Inoltre, Stoltenberg ha incorporato nella procedura di consolidamento della Nato una prima, graduale critica alla Cina che ha reso soddisfatto Trump nel 2019, pur evitando di spingere la Nato a inserire, in un primo momento, la Repubblica Popolare tra i suoi nemici esistenziali.
Al contempo, nel 2018 una mediazione è arrivata anche nei confronti di Recep Tayyip Erdogan la cui operazione militare nel cantone di Arfin in Siria, affidata all’esercito turco, è stata tutto sommato coccolata, in un gesto visto da Ankara come riparatorio dell’assenza di vicinanza per il fallito golpe del 2016. Tema, questo, ribadito nell’ottobre 2019 durante l’invasione turca di alcune aree curde nel nord della Siria.
Nuove e vecchie sfide
La Nato targata Stoltenberg ha messo in campo una serie di iniziative volte ad ampliare il suo raggio d’azione. Spesso sottovalutati, gli interventi del segretario hanno marcato di fatto l’ufficializzazione di linee operative a tutto campo che diventavano riferimenti condivisi per l’Alleanza.
Questo è successo, ad esempio, nella Conferenza sulla Sicurezza di Monaco del 2020, durante la quale Stoltenberg ha promosso una crescente attenzione della Nato alle tecnologie non strettamente militari, come il 5G, sottolineando che la tutela delle reti e della sicurezza delle comunicazioni debba contribuire a “mantenere le nostre società aperte, libere e resilienti” di fronte alla sfida delle autocrazie. Senza nominare la Cina, Stoltenberg ammonì: “Non dovremmo essere tentati di barattare benefici economici a breve termine con sfide a lungo termine per la nostra sicurezza“. Un tema ribadito un anno dopo al Forum di Davos, ove l’ex premier norvegese ha messo in campo il tema del predominio della sicurezza sulla prosperità, che ha dato un gancio alla prospettiva di ampliamento della Nato a struttura mondiale unendo la sicurezza della sfera atlantica a quella dell’Indo-Pacifico tramite il comune timore per l’assertività cinese, partita in campo economico.
Inoltre, più volte Stoltenberg è intervenuto sul fronte della cybersicurezza, che nell’ultimo quinquennio l’Alleanza Atlantica ha proattivamente integrato come dominio di pertinenza comune dei Paesi membri della Nato. E che con la guerra russo-ucraina è diventato un fronte comune di vigilanza, coperto dalle prospettive di risposta comune dell’Articolo 5 del Trattato istitutivo dell’Alleanza.
Afghanistan e Ucraina: i limiti della Nato
Il limite maggiore della gestione Stoltenberg si è visto, in quest’ottica, nei momenti critici del 2021-2022. In cui la fine del caos afghano e la precipitosa fuga da Kabul delle truppe occidentali da un lato e l’esplosione della guerra d’Ucraina dall’altro hanno mostrato la carenza di profondità strategica della Nato in quanto struttura. Dipendente, nelle ore più buie, dalle informazioni e dalle strategie delle sue potenze guida. A partire da Washington.
A Kabul la Nato in quanto tale non ha toccato palla. E mentre i Talebani, tra la primavera e l’estate 2021, portavano avanti quella che ritenevano la loro personale guerra di liberazione da vent’anni di occupazione occidentale, a Bruxelles nessuno contraddiceva le informazioni americane che parlavano di mesi prolungati necessari agli studenti coranici per conquistare il Paese. Il crollo dell’Afghanistan ad agosto 2021 è giunto come uno choc per Stoltenberg e ai suoi fedelissimi. Il segretario, a giugno 2021, dichiarava: “siamo stati in grado di costruire, addestrare le forze di sicurezza afghane in modo che ora siano responsabili della sicurezza nel proprio paese”. Parole presto smentite dai fatti.
Gli Usa diedero i tempi e i ritmi al ritiro da Kabul, così come diedero assieme al Regno Unito le carte nel contesto della risposta all’ammassamento di truppe russe al confine dell’Ucraina. Prima e dopo l’invasione del 24 febbraio, la Nato è parsa trascinata dagli eventi e costretta a giocare di rimessa. Stoltenberg ha potuto, limitatamente, mediare tra le intemperanze dei falchi come Polonia e baltici e la maggior cautela degli europei occidentali, non facendo mancare il suo incondizionato sostegno a Kiev ma al contempo cassando idee rischiose come la no-fly zone in Ucraina. Alla Nato Stoltenberg si è trovato a ratificare decisioni prese altrove, come l’escalation di forniture militari a Kiev o la scelta di accelerare sul decoupling da Mosca a mezzo sanzioni.
Il grande mediatore del passato è tornato in scena tra fine 2022 e inizio 2023, quando la sua capacità di bilanciamento è stata decisiva per consentire alla Turchia di separare il giudizio sulle procedure d’ingresso nell’Alleanza di Finlandia e Svezia. Helsinki è così entrata nella Nato, mentre a Vilnius, nel suo penultimo summit da segretario, Stoltenberg tenterà l’ultima mediazione. Il potere della burocrazia Nato è limitato nelle grandi prove della storia, dove l’Alleanza Atlantica è oggetto e non soggetto. Ma si espleta al meglio nelle fasi di impasse, dove Stoltenberg, l’ex pacifista dalla forza gentile, riesce a essere l’uomo del compromesso. E trattandosi di compromessi in alleanze militari, essi valgono doppio. Il profilo di forza tranquilla e di basso profilo dell’ex premier norvegese, probabilmente, farà scuola anche dopo che i Paesi membri si saranno accordati su chi far sedere a Bruxelles al posto del più longevo titolare della carica di segretario a partire dal 2024.
FONTE: https://it.insideover.com/difesa/il-bilancio-di-jens-stoltenberg-alla-guida-della-nato.html
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