Nella corsa globale al controllo dei mari, negli ultimi anni, geopolitica e commerci sono andati di pari passo. Di fronte all’onda montante della de-globalizzazione, della crisi delle catene globali del valore e delle rivalità strategiche tra potenze, sintetizzatesi in un rilancio del principio del primato della sicurezza sulla prosperità come già insegnato dal teorico del capitalismo per eccellenza (Adam Smith), la partita per le basi mondiali che consentono l’accesso ai mari e agli stretti è risultata al contempo imperniata di significati geopolitici ed economici. Oggi sempre più difficili da scindere.
In Italia ne abbiamo avuto esempio quando, nell’ultimo biennio, i tentativi della China Oceanic Shipping Company (Cosco) di ampliare la sua rete d’influenza su uno scalo – formalmente – solo commerciale come Trieste per consolidare la presa della Nuova via della seta sono stati messi nel mirino dal governo italiano di Mario Draghi, da apparati come il Copasir e dalle strutture dell’Alleanza Atlantica. Il motivo? Il timore dell’ingresso, anche sono in termini di capitali, di un colosso della Repubblica Popolare in un porto chiave per l’Italia al centro del Mediterraneo, in una fase in cui il Grande Mare si fa sempre più contendibile.
Dove finisce la questione economica, legata alla sfida cinese alla globalizzazione a guida americana e alla volontà dell’Italia di cercare di essere strategica nelle rotte transoceaniche che passano per il Mediterraneo, e dove inizia la partita militare e geopolitica che vede la Nato coinvolta nel Mediterraneo? Difficile dirlo. Così come è difficile capire quanto l’ingresso di Cosco nel porto di Amburgo, azionista di alcuni scali triestini tramite la società Hhla, possa condizionare i veti italiani e americani all’ingresso della Repubblica Popolare.
Esiste una crescente consapevolezza della svolta dual-use che porti e basi logistiche possono avere negli anni a venire grazie alla digitalizzazione dei servizi, alla natura sempre più strategica di certi scambi commerciali, dalle derrate alimentari ai semiconduttori per fare alcuni esempi, e della prossimità tra scali commerciali e scali militari che richiamano al tema fondamentale del controllo degli stretti quale garanzia del libero commercio e degli scambi economici. Su cui, a ben vedere, si regge la globalizzazione plasmata dagli Stati Uniti. A cui la Cina sta reagendo in forma asimmetrica: sfruttando da un lato l’openess dei mercati garantita dalle flotte e dalle portaerei della potenza rivale e mirando, in nome della sua potenza economica e dei suoi investimenti, a infiltrarsi. Creando un contesto in cui, da Gibuti allo Sri Lanka, dalla Tunisia al Pakistan, tra Mediterraneo, Mar Rosso e Oceano Indiano l’ambiguità del potenziale utilizzo dual-use militare e civile degli scali e l’integrazione tra le “Vie della Seta” marittime e i corridoi terrestri hanno mandato in allarme Washington. Aprendo alla disfida per il controllo delle rotte di domani.
Commercio è sicurezza, sicurezza è commercio
Il tema è stato ampiamente già affrontato dai principali studiosi di geopolitica e geoeconomia, che non hanno mancato di indicare nella partita per le basi un segno della riconfigurazione dell’ordine globale. Un interessante paper uscito sul Journal of Transport Geography a firma degli studiosi Hassan Noorali, Colin Flint e Seyyed Abbas Ahmadi ha a tal proposito segnalato che oggi più che mai “il commercio marittimo e la potenza marittima militare sono intrecciati. Inoltre, i focolai di tensione geopolitica, come Hong Kong e Taiwan, sono considerati vitali sia per ragioni economiche (banche nel primo e produzione di chip per computer nel secondo) sia per il loro ruolo nella strategia navale”, dato che la possibilità della Marina dell’Esercito di Liberazione Popolare (Plan) cinese di diventare una flotta d’alto mare (blue-water navy) sono intrecciate alla liberazione della stretta americana nel Mar Cinese Meridionale.
E in questo contesto, notano gli autori, “sebbene gli strateghi possano indicare gli oceani come arene di tensione geopolitica, il punto di partenza migliore sono i porti, i nodi nelle reti commerciali e la proiezione della potenza marittima”.
Stiamo in un certo senso tornando a una fase simile a quella teorizzata dai padri della geopolitica classica, tra cui il tedesco Karl Haushofer, il britannico Halford Mackinder, l’americano Alfred Mahan. I primi due teorizzarono lo scontro tra le potenze del mare e quelle della terra, il terzo fu il teorico del dominio navale a stelle e strisce sostanziandolo nel controllo strategico degli stretti, giugulari dell’ordine economico internazionale. Oggi, finita la fase romantica della globalizzazione, esposti al pubblico casi come le conseguenze del blocco di Suez del 2021 col caso Evergiven, la bomba dell’aumento dei noli navali dopo il Covid, il “Chipageddon” e la crisi energetica, esplose le rivalità tra potenze, ritornato in voga il paradigma della sicurezza nazionale, il principio chiave è ben noto a tutte le potenze. Il commercio è sicurezza, ovvero garanzia di sviluppo economico e occupazionale per i sistemi-Paese, nella misura in cui la sicurezza è commercio, ovvero le dinamiche economiche sono subordinate a precise visioni di ordine geopolitico e a princìpi di garanzia del primato della politica dell’economia. Un aumento nominale dei commerci non sarà, in futuro, più giustificato se passerà per il paradigma della cessione di porti occidentali a attori cinesi, ad esempio, a prescindere dal valore degli investimenti che tali progetti potrebbero garantire.
Verso i corridoi di domani
Gli autori del citato studio notano che da tempo le potenze stanno su un fronte evolvendo i canoni rispetto al paradigma geopolitico tradizionale: dal dualismo terra-mare si sta passando alla visione di un concetto integrato basato su corridoi, al contempo, economici, commerciali e militari: “Piuttosto che vedere terra e mare come regni separati”, sarà sempre più possibile vederli come contesti che “sono collegati da corridoi di trasporto che quasi sempre attraversano i porti”.
Se “nel corso della storia il conflitto per il controllo dei corridoi e dei porti ha avuto un ruolo nel cambiare l’equilibrio del potere globale”, oggi esso si inserisce nel più grande gioco dei corridoi. La “Via della Seta” cinese ne è l’esempio più noto. Ma non certamente l’unico. I Corridoi Ten-T dell’Unione europea coniugano prospettive commerciali, spinta all’abbattimento delle barriere alle merci e alle persone e aumento della mobilità militare in un sistema di progettazione di un rilancio infrastrutturale a tutto campo mediante la congiunzione tra strutture portuali, poli industriali e aree diverse dell’Europa. E che dire del sistema dei Tre Mari preconizzato dalla Polonia con l’obiettivo esplicito di tagliare fuori economicamente dall’Ue la Russia e favorire la mobilità Nato a Est? O del proliferare di basi militari vicino a aree strategiche come lo stretto di Bab-el-Mandeb tra Mar Rosso e Oceano Indiano?
Il dualismo tra sicurezza nazionale e sviluppo è oggi più che mai fondamentale. E nel grande gioco della geopolitica delle infrastrutture i porti sono chiave e perno del posizionamento delle potenze. Garanzia di proiezione commerciale e economica, ergo strategica. Infrastrutture segnaletiche il cui controllo è un proxy dello sviluppo di un contesto economico-geopolitico. Nei prossimi anni e decenni la corsa al loro controllo si intensificherà. E condizionerà lo sviluppo di una globalizzazione sempre più diversi dai canoni dei suoi teorici e sempre più “geopolitica” dopo le crisi degli ultimi tempi.
FONTE: https://it.insideover.com/economia/basi-e-stretti-la-lotta-globale-per-il-controllo-dei-porti.html
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