“Il potere è l’afrodisiaco supremo”. Una citazione che racconta molto di Heinz Alfred Kissinger, conosciuto ai più semplicemente come Henry Kissinger, 100 anni il 27 maggio, il rifugiato ebreo che dalla Germania di Hitler è arrivato alla Casa Bianca. Non un semplice diplomatico e un fine storico e politologo ma un uomo che per 8 anni ha dominato la scena diplomatica internazionale relegando al ruolo di comprimari i presidenti che lo avevano scelto. Dal 1968 al 1976, infatti, Kissinger è stato l’indiscusso tessitore e attore protagonista della politica statunitense in piena Guerra fredda.
Un’interminabile carriera costellata di luci e ombre: dal capolavoro strategico-diplomatico con la riapertura delle relazioni diplomatiche con la Cina in funzione anti-sovietica, suggellata dalla storica visita del presidente Nixon a Pechino nel 1972, allo sviluppo della celebrata shuttle diplomacy nella guerra arabo-israeliana del 1973, fino ai bombardamenti in Cambogia e al presunto coinvolgimento degli Stati Uniti nel colpo di stato in Cile del settembre 1973, che portò alla destituzione di Salvador Allende e all’instaurazione del regime militare di Augusto Pinochet. Nei giorni scorsi l’ultima profezia sulla guerra in Ucraina che, secondo il diplomatico, potrebbe risolversi entro la fine dell’anno con dei negoziati (grazie alla Cina).
Spesso citato tra i grandi pensatori del “realismo politico”, il Professor Henry, in realtà, ha elaborato una “dottrina” tutta sua che ha messo insieme diversi approcci alle Relazioni internazionali, in bilico tra internazionalismo liberale e realpolitk. Uno stratega geniale, un cinico cospiratore e un abile diplomatico. Un machiavellico dai mille volti. Amato e odiato. “Nessuno statista americano è stato venerato o insultato come Henry Kissinger”, ricorda lo storico Niall Ferguson. Sta di fatto che nessun presidente Usa ha voluto fare a meno delle sue intenzioni: “I suoi consigli – ricorda Ferguson – sono stati richiesti da ogni presidente, da Kennedy a Obama”.
Chi è il diplomatico nato in Baviera
Kissinger è nato a Fürth, in Baviera, il 27 maggio 1923. Nel 1938, a seguito delle leggi di Norimberga e del clima antisemita instaurato dal nazismo, emigrò con la sua famiglia negli Stati Uniti e si stabilì a New York. Dopo essere diventato cittadino statunitense, venne arruolato nella fanteria combattendo nell’offensiva delle Ardenne (1944), partecipando anche alla liberazione di un campo di concentramento. Fu però all’Università di Harvard che Kissinger trovò la sua vera vocazione: quella di studioso. Dopo essersi immerso nella filosofia di Kant e nella diplomazia di Metternich, allievo di Hans Morgenthau – con il quale ebbe un rapporto tormentano negli anni – conseguì la laurea nel 1950 e un dottorato di ricerca nel 1954 con una tesi intitolata Peace, Legitimacy, and the Equilibrium (A Study of the Statesmanship of Castlereagh and Metternich). La sua carriera accademica decollò e ne 1957 pubblicò il suoi primo libro – Nuclear Weapons and Foreign Policy – e, soprattutto, venne assunto da Nelson Rockefeller, magnate repubblicano e collaboratore del presidente Eisenhower.
Durante gli anni Cinquanta e Sessanta, Kissinger prestò servizio come consulente per diverse agenzie governative, tra cui il Consiglio di sicurezza nazionale, il Dipartimento di stato, e l’Agenzia per il controllo degli armamenti e il disarmo. Nel 1969, il presidente Richard Nixon scelse Kissinger come suo consigliere per la sicurezza nazionale: nel settembre 1973 venne nominato segretario di Stato, carica che mantenne anche nell’amministrazione Ford a seguito delle dimissioni di Nixon provocate dello scandalo Watergate.
Le riflessioni sulla politica italiana e su Paolo VI
Nel libro di memorie Gli anni della Casa Bianca Kissinger racconta del viaggio in Italia del settembre 1970 con il presidente Richard Nixon. Il presidente del Consiglio italiano era, all’epoca, Emilio Colombo, successore di Mariano Rumor mentre il presidente della Repubblica era Giuseppe Saragat, di gran lunga la personalità politica italiana più apprezzata dal Segretario di stato americano, contrariato dall’apertura del governo a sinistra. “La tendenza dell’apertura a sinistra – racconta Kissinger – era giunta ormai a un punto tale che non era più possibile pensare di governare senza i socialisti. Questi, dal canto loro, erano restii ad allontanarsi troppo dal Partito comunista, con il quale collaboravano in molte amministrazioni provinciali. I comunisti, perciò, avevano un’influenza sempre maggiore, anche se indiretta, sull’operato del governo”. Risultato questo, osserva, “che era esattamente l’opposto di quanto i pionieri dell’apertura a sinistra avevano sperato” (tra questi, Aldo Moro).
A proposito di Saragat, Kissinger sottolinea che si trattava, di gran lunga, del “più apprezzabile e degno di rispetto tra i leader politici italiani – intelligente e riflessivo, deciso, buon amico degli Stati Uniti. Purtroppo, si trovava in una situazione poco felice. Il suo partito, il Partito socialdemocratico, stava subendo una graduale e progressiva atrofizzazione per effetto della già citata apertura a sinistra” ed era “sempre meno in grado di esercitare un controllo sulle leve del potere”. Gli incontri a villa Madama con gli esponenti del governo non andarono bene. E Kissinger lo sottolinea: “La politica italiana – che più di ogni altra cosa ci interessava – esulava dai limiti di un dibattito formale. D’altra parte, gli italiani sembravano considerare i problemi della politica internazionale del tutto secondari rispetto a quelli della politica interna, poiché a livello internazionale l’Italia aveva scarse possibilità di far sentire la sua influenza. Non fu un caso che la discussione si facesse tanto più banale, quanto più il cerchio dei partecipanti si allargava”.
Di quel viaggio non mancano le riflessioni su Papa Paolo VI che, secondo il diplomatico americano, “era, per molti versi, il simbolo del travaglio di un’era. Meglio di tutti i leader che avevo conosciuto, comprendeva bene il dilemma morale di un periodo storico nel quale la tirannia marciava sotto le bandiere della libertà, e sapeva che le ‘riforme’ rischiano di creare sterili burocrazie. Egli lottava per cercare di preservare un margine alla coscienza e alla dignità dell’uomo. Avversava profondamente l’angoscia del suo tempo, che necessitava, sì, di un cambiamento, ma anche di salde verità morali. Voleva la pace, ma non a prezzo della giustizia. Non era alieno da presentimento, ma la fede che lo animava era troppo grande perché se ne lasciasse fuorviare”.
La shuttle diplomacy
Kissinger è entrato nel dipartimento di Stato appena due settimane prima che Egitto e Siria lanciassero un attacco a sorpresa contro Israele. La guerra di ottobre del 1973 ha svolto un ruolo importante nel plasmare il mandato di Kissinger come segretario. In primo luogo, ha lavorato per garantire che Israele ricevesse un ponte aereo di rifornimenti militari statunitensi. Questo ponte aereo ha aiutato Israele a rovesciare l’esito del conflitto a favore dello stato ebraico. Dopo l’attuazione di un cessate il fuoco sponsorizzato dalle Nazioni unite, Kissinger iniziò inoltre una serie di missioni di “diplomazia navetta“, in cui viaggiò tra varie capitali del Medio Oriente per raggiungere accordi di cessate il fuoco. Questi sforzi produssero un accordo nel gennaio 1974 tra Egitto e Israele e nel maggio 1974 tra Siria e Israele.
Le ombre nella carriera del diplomatico
Luci dunque, ma anche ombre con, da un lato, una capacità diplomatica senza eguali e dall’altro, un atteggiamento da cinico calcolatore sprezzante del principio di autodeterminazione dei popoli. Lo ricordava tempo fa anche il New Yorker, in un lungo articolo nel quale si ricorda come il suo maestro ad Harvard, Hans Morgenthau, rimase alquanto deluso dal suo pupillo quando difese pubblicamente la guerra del Vietnam, nonostante quest’ultimo avesse ammesso privatamente che gli Stati Uniti non avrebbero potuto vincere. Ma forse l’eredità più pesante è quella rappresentata dalla guerra in Cambogia, rispetto alla quale il New Yorker ricorda come “nel marzo 1969 Nixon e Kissinger diedero il via a una serie di bombardamenti segreti sul Paese, che rappresentava un rifugio sicuro per i vietcong e il Vietnam del Nord.
In quattro anni, l’esercito americano lanciò più bombe sulla Cambogia di quante ne avesse lanciate nell’intero teatro del Pacifico durante la Seconda guerra mondiale. La campagna uccise circa centomila civili e accelerò l’ascesa di Pol Pot”. E tra le “macchie” nella carriera del diplomatico alla Casa Bianca a fianco di Nixon, ricorda sempre il New Yorker, c’è anche l’appoggio alla campagna di genocidio del presidente pakistano Yahya Khan contro il Pakistan orientale, nel 1971, che fu portato avanti per dimostrare quanto “l’America fosse dura”.
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