Alla fine della Guerra Fredda, una volta venuta meno la “minaccia” del comunismo, apparve subito chiaro che il vero vincitore non era tanto una nazione o un gruppo di nazioni, quanto piuttosto un intero modello socio-economico coniato dagli Stati Uniti d’America e basato sui dogmi del “mondo libero occidentale”.
Dopo quasi mezzo secolo di guerre e tensioni, il mondo era pronto a una de-escalation generale: le armi venivano deposte, le idee e le teorie politiche che avevano infiammato i popoli soffocate.
Le rivendicazioni geopolitiche e le aspirazioni nazionaliste venivano temporaneamente messe in soffitta per lasciare spazio al nuovo grande fratello portatore d’ogni bene: il capitale.
Fu l’inizio di una Pax Americana. La cui estensione fu capace di propagarsi ovunque nel mondo. Dall’ex Unione Sovietica all’Europa, passando per l’America Latina. In quest’ultima area geografica in particolare, ad esempio, prese forma nel 1989 sotto il nome di Washington Consensus, e consisteva in una serie di politiche economiche che quei Paesi avrebbero dovuto accettare per fare fronte alle crisi del debito pubblico in cambio del supporto da parte della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale.
La soluzione era semplice: zio Sam ti salva dalla bancarotta se tu adotti le sue ricette politiche ed economiche. Tra le quali: tenere a bada la spesa pubblica, privatizzare le imprese di Stato, liberalizzare il più possibile il commercio, deregolamentare interi settori e aprire a investimenti stranieri.
In altre parole: la globalizzazione nella sua essenza. Principi e dogmi liberisti. La supremazia del mercato sulla politica. In un ordine mondiale, all’insegna del capitale, plasmato dagli Usa e dal loro dominio finanziario e, di conseguenza, politico e militare.
Uno schema disegnato ad hoc affinché gli interessi economici avessero la meglio su quelli geopolitici. Un mondo piatto e appiattito su questi principi, sul consenso condiviso di questo modello socio-economico e di sviluppo, senza più ostacoli o sgambetti della Storia. La quale – così scrisse lo storico Francis Fukuyama – «era finita».
Tutto ciò è cambiato nel momento in cui la Cina – invitata dagli Usa ad aderire allo schema della globalizzazione, proprio come le altre regioni globali – è diventata la fabbrica del mondo e una delle prime potenze economiche mondiali. Mentre invece in Occidente le disuguaglianze sociali iniziavano a incidere e a far vacillare la grande crescita economica.
Oggi, nelle intenzioni dell’amministrazione Biden, è giunta l’ora di un nuovo Washington Consensus. In versione 2.0. Aggiornato ai tempi odierni e adeguato alle nuove sfide contemporanee (Cina in testa). Così ha infatti dichiarato di recente Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale alla Casa Bianca.
Il suo intervento è stato da molti definito storico, per la portata e le implicazioni che avrà negli anni a venire, e per la direzione che gli Usa intendono dare alla propria politica estera e domestica.
L’ammissione è clamorosa perché mai prima d’ora un esponente (democratico) del governo statunitense si era spinto a tanto: dichiarando cioè che l’ordine mondiale plasmato da Washington nel dopo-Guerra fredda (di cui abbiamo riportato i dettagli essenziali nella introduzione di questo pezzo) ha fallito.
- La globalizzazione ha indebolito gli Usa al loro interno, impoverendo la classe media.
- Ha reso più vulnerabili le imprese americane, contribuendo alla de-industrializzazione degli Stati Uniti e a una crisi produttiva senza precedenti (per la sua interdipendenza da altri Paesi, Cina in primis), come nel caso di prodotti farmaceutici e i chip per le automobili.
- Ha imposto un cambio di passo sul predominio tecnologico e militare degli Stati Uniti, permettendo che altre nazioni espandessero le proprie ambizioni geopolitiche in aree cruciali del globo.
- Ha infine portato al disfacimento di una serie di Stati canaglia in America Latina, dove le ricette del Washington Consensus sono servite a tutto fuorché a tirare fuori dai guai i paesi che le hanno adottate.
Sullivan, per intenderci, è uno degli uomini dietro l’Inflation Reduction Act (Ira), di cui abbiamo parlato più volte su questo giornale, il cui intento è rivitalizzare la politica industriale ed estera Usa affinché possa portare giovamento alla svantaggiata e decadente middle class americana, investendo sulle potenzialità economiche e tecnologiche americane, in modo da ottenere importanti passi in avanti ai fini di una transizione ecologica globale.
Belle parole, ma ancora incerte, per una politica che alcuni osservatori hanno definito eccessivamente protezionista e che altri hanno criticato perché a somma zero, in cui l’unico attore a trarne vantaggio sarebbe sempre e solo l’America.
Il dibattito è caldo poiché anche la presidente della Commissione europea Von der Leyen ha recentemente affermato che sia necessario ridurre il rischio di una sovra-esposizione europea dalla Cina, piuttosto che commettere l’errore di staccarsi del tutto dalla più grande economia al mondo.
Ma forse, dopo tutto, non c’è ordine mondiale che tenga, e non esiste modello socio-economico in grado di arginare le naturali pulsioni di Stati-nazioni, in un ordine mondiale anarchico e ingovernabile. Non è stato così con la Russia, non sarà così con la Cina.
FONTE: https://www.tpi.it/opinioni/globalizzazione-favorito-cina-202305111009520/
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