Nella storia della Miteni Spa, azienda chimica specializzata in produzione di intermedi fluorurati per agrochimica, farmaceutica e chimica e dichiarata fallita nel 2018, non c’è soltanto il processo che ora vede imputati davanti alla Corte d’Assise di Vicenza i suoi manager (assieme a quelli di Icig e Mitsubishi Corporation) per avvelenamento delle acque, disastro ambientale innominato, gestione di rifiuti non autorizzata, inquinamento ambientale e reati fallimentari. C’è anche la tragica vicenda degli operai che hanno operato all’interno della fabbrica e che hanno contratto gravi malattie, in tre casi sfociate addirittura in decessi. E che ora rischiano di non avere giustizia a causa del possibile intervento della prescrizione.
L’intera vicenda processuale ha avuto origine dalla scoperta, nel 2013, del grave inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) di una vasta falda acquifera in Veneto, che avrebbe coinvolto 350mila cittadini nelle aree di Vicenza, Verona e Padova. Su spinta delle associazioni ambientaliste, tra il 2015 e il 2016 è partita una rilevazione a campione nei comuni interessati che ha evidenziato valori elevati di Pfas nel sangue dei residenti: così, nel marzo 2018, il governo dichiarò lo stato di emergenza con il divieto di consumo di acqua potabile e l’istituzione di una zona rossa in 30 comuni. Di tutto questo sta rispondendo in sede processuale la società insieme ai suoi vertici.
Dall’altro lato, però, è in corso un’inchiesta incentrata sulla morte di tre lavoratori dell’azienda e sulle patologie che hanno colpito 18 loro colleghi, che quattro anni fa hanno presentato gli esposti insieme alla Cgil e alla Filctem-Cgil di Vicenza. Gli indagati, che hanno ricoperto ruoli di vertice o di controllo sulla sicurezza nelle varie proprietà Miteni, sono in tutto 19. Due le accuse: l’omicidio colposo aggravato di tre dipendenti (il primo deceduto nel 2006 per un linfoma non-Hodgkin e un carcinoma alla pleura, il secondo nel 2010 per un carcinoma polmonare, il terzo nel 2014 per un carcinoma uroteliale) e le lesioni colpose aggravate che avrebbero riguardato 18 dipendenti. Tra le patologie in questione, figurano ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia, asma, noduli, tumori, problemi epatici ed esaurimento nervoso.
Nonostante abbia accertato evidenti irregolarità nello stato degli impianti, nella valutazione dei rischi e nelle tutele degli operai, sulla base di una perizia scientifica coordinata dal Prof. Enrico Pira (Università di Torino), nell’estate del 2020 il pm ha presentato richiesta di archiviazione. Per i periti, infatti, non sarebbero emersi “nessi di causalità tra l’esposizione ai Pfas e i decessi”, mentre per soli 10 operai su 18 tra quelli ancora in vita è stato rilevato “un nesso eziologico, in termini di concausalità, tra esposizione alle sostanze e l’ipercolesterodemia (eccesso di colesterolo prolungato per anni, ndr)”. Ma in questi casi interverrebbe la mannaia della prescrizione, che viene calcolata dal momento in cui la “malattia caratterizzata da evoluzione nel tempo” insorge. Fissando i tecnici l’insorgenza della malattia prima del 2000, la prescrizione scatterebbe infatti in alcuni casi già dal 2006.
Le parti offese, che promettono battaglia, hanno presentato opposizione alla richiesta di archiviazione formulata dalla Procura. La Camera di consiglio si terrà il prossimo 8 giugno. Subito dopo il gip sarà chiamato a scegliere se dare ragione alla procura, dare l’impulso per nuove indagini o formulare l’imputazione coatta per gli indagati.
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