Si trova nei fondali oceanici il nuovo El Dorado per la transizione energetica? La fame mondiale di materiali critici non accenna a diminuire. E per soddisfare esigenze sempre crescenti per le industrie e le politiche economiche delle economie più importanti del pianeta sta iniziando a prendere piede in diversi contesti l’idea di cacciare tali risorse anche sul fondo dei mari di tutto il mondo.
Allo stato attuale delle cose nel mondo non sono stati stanziati i fondi necessari per portare gli investimenti nelle più strategiche delle risorse naturali per la transizione energetica al livello delle richieste dei grandi piani di decarbonizzazione al 2030 e, soprattutto, al 2050, anno in cui molti Stati propongono di ottenere la neutralità climatica netta.
L’esigenza di puntare agli abissi
Forbes ha di recente riportato i dati di uno studio del Servizio geologico della Finlandia (Gtk) che “esamina il volume di metalli necessari per costruire la prima generazione di veicoli elettrici, ad esempio, sostituendo ogni veicolo della flotta globale oggi con uno elettrico. Ebbene, “si stima che una generazione di veicoli elettrici (1,39 miliardi di vetture) richiederà oltre 280 milioni di tonnellate di minerali critici e altri 2,5 miliardi di tonnellate di metalli per progetti di stoccaggio di energia per sostenere un tale aumento del consumo di elettricità”. Non esistono al mondo il litio e il nichel necessari a soddisfare una transizione tanto grande in una generazione, e da qui nasce l’idea di rivolgersi ai giacimenti sottomarini che molti governi e imprese stanno puntando per cacciare nuovi materiali strategici.
Nel Pacifico, nell’Atlantico e in aree dell’Oceano Indiano abbondano in particolare i noduli di manganese, formazioni formate nei millenni dalla stratificazione dei sedimenti in cui si trovano concentrati assieme in vere e proprie “pepite” fino a trentasette metalli contemporaneamente, tra cui nichel, cobalto e rame; nel Pacifico la Clarion Clipperton Zone (CCZ) da oltre 4 milioni di chilometri quadrati, estesa tra Kiribati, le Sporadi e il Messico, ospita enormi giacimenti di terre rare su cui insistono già venti diverse richieste di esplorazione; nella zona delle Isole Salomone sono presenti importanti risorse sottomarine dal grande valore strategico; nei fondali di aree nordiche come la Groenlandia e la Norvegia si trovano minerali in quantità. E l’elenco è sicuramente più esteso. Meno di un decimo dei fondali marini profondi degli oceani che coprono oltre due terzi della superficie terrestre è ad oggi stato mappato con precisione. In potenza, dunque, il tesoro sottomarino potrebbe essere decisivo per l’evoluzione industriale delle società più avanzate.
Il problema dell’accessibilità
Il nodo principale è quello dell’accessibilità di queste risorse. Forbes ricorda che finché si tratta della raccolta dei noduli, il problema non si pone perché non è necessaria alcuna attività di perforazione e trivellazione in acque profonde. Nella caccia ai giacimenti di litio, nichel, titanio e terre rare presenti sui fondali, però, spesso è da tenere in considerazione la necessità di interventi più invasivi che si scontrano con convenzioni internazionali per la tutela dell’ambiente, come i Protocolli di Parigi o la Convenzione Onu sul Diritto del Mare (Unclos) che preservano gli ambienti sottomarini. Jocelyn Trainer, ricercatrice ed esperta per il programma di energia, economia e sicurezza presso il Center for a New American Security, ha scritto sul sito dello United States Institute for Peace (Usip) che “circa il 60% del fondo oceanico si trova al di fuori della giurisdizione dei singoli Stati. In queste acque, la prospezione in alto mare (la ricerca di minerali e metalli), l’esplorazione (valutazioni della posizione, delle dimensioni e della quantità) e lo sfruttamento (il recupero e la consegna di quantità economiche di minerali e metalli) sono regolati dall’Autorità internazionale dei fondali marini (Isa) creata dall’Unclos”.
Il rischio di una competizione a tutto campo, anarchica e non governata, per le risorse fa pensare che in diversi fronti i costi della caccia alle risorse minerarie superino i benefici che potrebbero essere garantiti dall’apertura dei fondali al deep sea mining. Si pongono inoltre almeno altre due grandi constatazioni di merito. La prima è quella della complessità di un processo di transizione energetica che nei grandi piani delle potenze del pianeta è stato disegnato come grande quadro ideale senza grande attinenza al pragmatismo, all’evoluzione dell’industria e ai ritrovati della tecnica. Dunque come somma di aspettative più che frutto di calcoli reali. La seconda è legata al fatto che nel nome della transizione green si rischia di aprire una caccia industriale e mineraria ai santuari per eccellenza dell’ambiente mondiale, gli oceani, regolatori del clima, delle temperature e della vita sulla Terra. Un ambientalismo focalizzato unicamente sul taglio delle emissioni rischia, insomma, di danneggiare in altri campi l’ambiente stesso. E questo mostra la miopia di una narrazione economicista dominante nel campo dell’energia di frontiera.
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