Forse le sanzioni alla Russia non stanno mordendo come atteso l’economia del Paese di Vladimir Putin, ma c’è un fronte su cui invece le scelte dell’Occidente hanno impattato i bilanci di Mosca: la diversificazione energetica. La differenza tra le entrate fiscali della Russia del febbraio 2022 nei settori riferenti al campo energetico e quelle del febbraio scorso è a dir poco notevole: -46% per le casse di Mosca.
Si tende infatti, molto spesso, a focalizzarsi sul dato del venduto del mercato energetico russo. Focalizzandosi dunque sul valore del gas esportato o degli acquisti compiuti da Paesi terzi in sostituzione al valore tradizionalmente destinato all’Occidente. Ma la vivacità della Russia nel settore trainante della sua economia si è ridotta perché ridotta é la capacità di Mosca di aprire alla vendita di prodotti raffinati, ad alto valore aggiunto e di filiera ai Paesi partner.
Sono infatti attestati a 6,91 miliardi di dollari a febbraio rispetto ai 12,79 dell’ultimo mese prima dell’invasione dell’Ucraina gli incassi dell’erario russo legate all’attività energetica. Le entrate derivanti dalle esportazioni verso l’Ue per la Russia sono segnalate come in calo di quasi il 90%, e verso questi mercati si concentrava la quota maggioritaria del valore aggiunto andato perduto a cui è associata la minore tassazione per le attività operative interne.
Questo dato non va confuso con quello dei proventi del Cremlino per l’esportazione netta, che va mediata con i costi di estrazione, e che secondo il Center of Research for Environment and Clean Energy (Crece) sono pari a 560 milioni di euro ogni giorno. Il Crece ha raccomandato ai Paesi occidentali di “abbassare il limite di prezzo dall’attuale livello di 60 dollari al barile per il petrolio greggio a un livello di prezzo molto più vicino ai bassi costi di produzione della Russia, che in media sono stimati in 15 dollari o meno al barile. Abbassare il prezzo che la Russia riceve per le sue esportazioni di petrolio negherebbe al Cremlino le entrate tassabili”, spingendo ulteriormente al ribasso il tutto.
Il calo degli utili di Gazprom per le vendite all’estero di gas, scesi da 6,3 a 3,4 miliardi di dollari a gennaio, testimonia ulteriormente quanto l’aggressiva strategia di distacco dal gas russo abbia, ad oggi, prodotto impronte economiche non secondarie. Impossibile pensare al crollo dell’economia russa per mosse del genere: ma un più prosaico obiettivo di rendere più difficile al Cremlino il finanziamento della sua guerra è fattibile.
In quest’ottica si mostra apertamente il peso geopolitico ed economico della diversificazione energetica operata da Paesi come Italia e Germania e al contempo l’effetto-leva di scelte apparentemente minori o tecniche, come il bando ai prodotti raffinati, nel colpire le riserve della Russia. La quale sta operando, in maniera a dir poco spericolata ma fino ad ora efficace, una rigidissima politica di controllo del cambio per evitare che la decrescita delle entrate si sommi all’indebolimento del rublo. Ma dopo un anno di austerità rigidissima, di difesa del valore del rublo e di alchimie monetarie della Banca centrale guidata da Elvira Nabiullina senza il sottostante costituito dalle entrate energetiche stabili anche la valuta russa inizia a mollare il colpo. A febbraio il rublo è passato dal cambio di 69 unità per un dollaro a uno di 75 a 1, con una perdita dell’8% che è la più consistente dalla fine del panic selling di inizio invasione. Non è un tracollo ma è un segnale: anche la trincea russa sull’economia non è più inscalfibile. E l’energia è, una volta di più, la chiave di tutto.
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