L’amministrazione di Joe Biden, come tutte le precedenti, e un po’ come (quasi) tutti i governi del mondo, non è un “monolite” e al suo interno si confrontano gruppi di funzionari e politici che hanno visioni, culture e idee diverse. Accade nelle piccole amministrazioni comunali, figuriamoci all’interno della grande burocrazia di Washington, DC, dove si decide la linea politica e strategica della superpotenza mondiale.
Non fa certo eccezione la guerra in Ucraina, rispetto alla quale la politica dell’amministrazione Biden è tutt’altro che univoca. Basti pensare alla figurata ponderata e pragmatica Capo dello stato maggiore congiunto Mark Milley e a quella del “falco” della politica estera Usa, il sottosegretario di Stato per gli affari politici, Victoria Nuland. In mezzo a queste correnti c’è il presidente Joe Biden, che deve cercare di trovare una mediazione fra interessi e strategie spesso divergenti, se non conflittuali.
Il retroscena sul conflitto
Durante il suo discorso sullo stato dell’Unione, Joe Biden ha affermato che l’invasione russa dell’Ucraina “è stata un test per l’America, un test per il mondo”, una prova se difendere i principi “più basilari”, la sovranità o il diritto di un popolo a vivere libero dalla tirannia, la democrazia. Osservando come la guerra evochi le immagini di “morte” e “distruzione” subite dall’Europa durante la Seconda guerra mondiale, Biden ha ricordato come un anno fa tenne il suo discorso annuale al Congresso pochi giorni dopo che il presidente russo Vladimir Putin aveva lanciato la sua “guerra brutale“, come riporta l’agenzia Agi. A quel punto si è rivolto all’ambasciatrice ucraina a Washington, Oksana Markarova, invitata nel palco accanto alla first lady, Jill Biden, per sottolineare che gli Stati Uniti sono “uniti” nel sostenere il Paese invaso dalla Russia.
Ma nonostante la retorica del presidente, all’interno dell’amministrazione Biden, svela il politologo Walter Russell Mead sul Wall Street Journal, la lotta è tra tre gruppi: gli “internazionalisti liberali“, che vogliono che l’America e l’Occidente facciano ciò che è necessario per “garantire che la Russia perda la guerra”; “pragmatici che vogliono controllare la Russia” ma temono “l’escalation russa e credono che la guerra finirà inevitabilmente con una pace di compromesso” che “non soddisfa le speranze wilsoniane”; e altri che temono che il sostegno degli Stati Uniti all’Ucraina “riduca la capacità dell’America di affrontare la minaccia più consequenziale e a lungo termine proveniente dalla Cina”.
Il presidente Biden cerca con fatica di stare nel mezzo, dando all’Ucraina più sostegno di quanto preferiscono i pragmatici e quelli che vogliono che l’America si concentri sull’Asia, ma facendolo “più lentamente di quanto vorrebbero i wilsoniani”. Come ha scritto Lorenzo Vita sulle colonne di questa testata, il dibattito a Washington è aperto: se da un lato c’è quindi tutto un apparato di Difesa, analisti e politici che ritiene fondamentale il continuo flusso di armi verso Kiev, al punto da sostenere anche la linea sull’invio di caccia F-16 dopo i carri armati, altri, più di recente, hanno espresso delle perplessità.
L’eredità di Wilson
La lotta di potere all’interno della Casa Bianca viene raccontata da Russell Mead, uno dei più grandi politologi viventi, nell’ambito di un’analisi sull’eredità politica di Woodrow Wilson, 28esimo presidente degli Stati Uniti d’America durante la Prima guerra Mondiale. Come scrive Henry Kissinger ne L’Arte della Diplomazia, nel “1915 Wilson propose una dottrina senza precedenti, in cui si affermava che la sicurezza dell’America era inseparabile da quella di tutta l’umanità, sottintendendo con questo che da quel momento gli Stati Uniti si sarebbero opposti all’aggressione ovunque si fosse manifestata”.
Configurando l’America come “un benefico poliziotto globale“, osserva Kissinger, “si anticipava la politica del contenimento che sarebbe stata sviluppata dopo la seconda guerra mondiale. Nemmeno nei suoi momenti più esaltanti, Theodore Roosevelt avrebbe potuto ipotizzare questo interventismo su scala mondiale; lui era stato lo statista-guerriero, Wilson il sacerdote-profeta”.
Russell Mead ricorda come novantanove anni fa questo mese, Woodrow Wilson, paralizzato da un ictus e umiliato dalla vittoria repubblicana del 1920, giaceva morente a Washington. Tuttavia, “il suo sogno di un ordine mondiale liberale e basato su regole gli è sopravvissuto e la risposta occidentale all’attacco di Vladimir Putin all’Ucraina dimostra quanto sia potente la sua eredità”. Gli internazionalisti liberali, eredi di Wilson, credono che le istituzioni globali (come la sfortunata Società delle Nazioni di Wilson) possano “sostituire le lotte di potere anarchiche, spesso mortali, tra le nazioni con un sistema” che imponga lo stato di diritto su scala globale.
Per i moderni eredi di Wilson, riflette dunque Mead, “il governo tecnocratico attraverso istituzioni internazionali basate su regole rappresenta l’ultima, la migliore speranza dell’umanità per evitare sconvolgimenti catastrofici che vanno dalle guerre mondiali al cambiamento climatico”. Tuttavia, gran parte del mondo, al di là dell’occidente, rifiuta questa visione della politica estera.
Gli esempi, in tal senso, non mancano. La scorsa settimana il cancelliere tedesco Olaf Scholz, osserva il politologo, ha visitato Lula per celebrare la sua vittoria su Bolsonaro e per chiedere al Brasile di inviare munizioni all’Ucraina. Lula ha accettato le congratulazioni ma ha rifiutato la richiesta. Il Brasile, come l’India, il Sud Africa e gran parte del resto del mondo, non vogliono avere niente a che fare con le crociate wilsoniane, nota ancora Mead. “Lo scetticismo di Lula riflette decenni di diffidenza nel Sud del mondo riguardo all’agenda wilsoniana. Nella misura in cui le istituzioni wilsoniane funzionano, gran parte del Sud del mondo le vede come strumenti del dominio occidentale che dovrebbero essere temuti e contrastati”.
Commenti
Posta un commento
Partecipa alla discussione