Nel settembre 2012, l’organizzazione spagnola per i diritti umani Safeguard Defenders ha dato alla luce un report intitolato Chinese Transnational Policing Gone Wild. Per settimane intere, la notizia principale del report, ovvero la presunta istituzione di 54 “centri di servizio di polizia d’oltremare” in cinque continenti e 21 Paesi da parte degli uffici di pubblica sicurezza di due province cinesi, è passata quasi inosservata, fatta eccezione per pochi richiami. Soltanto a distanza di quasi tre mesi dalla pubblicazione del suddetto documento i riflettori si sono accesi sul dossier.
Nel frattempo, l’ong ha partorito un follow up, Patrol and Persuade, con altre 33 pagine di informazioni e altre 48 “stazioni di polizia segrete” aggiunte al conteggio, fino ad arrivare ad un totale di 102 strutture distribuite in tutto il mondo. Numerosi governi, tra cui quello italiano, hanno quindi aperto un’inchiesta per capire, intanto, che cosa è accaduto, e poi per chiarire i contorni delle misteriose “stazioni di polizia” (11 delle quali, per la cronaca, localizzate in Italia).
Queste strutture sono davvero, come ha denunciato l’ong spagnola, piccole perle di una rete globale di controllo dei dissidenti cinesi, oppure siamo di fronte a tutt’altro? In attesa che ciascun Paese fornisca adeguate risposte, a novembre il governo irlandese ha ordinato la chiusura di un ufficio a Dublino che, secondo un cartello all’ingresso, si chiamava Fuzhou Police Overseas Service Station. A Londra, la Camera dei Comuni ha discusso il rapporto, mentre in Olanda è in corso un’indagine.
Due versioni
Per Safeguard Defenders, le strutture sono state apparentemente create per affrontare la criminalità transnazionale e svolgere svariati compiti amministrativi, tra i quali il rinnovo delle patenti di guida cinesi. L’ong non ha però dubbi nel sostenere che questi uffici svolgerebbero in realtà un lavoro ben diverso, coincidente con innumerevoli “operazioni di persuasione” volte a costringere eventuali dissidenti a tornare in Cina. Se così fosse, avamposti del genere potrebbero violare l’integrità territoriale di un Paese ospitante, aggirando le giurisdizioni nazionali e le tutele offerte dal diritto interno.
Per la Cina, si tratterebbe sostanzialmente di un malinteso, o peggio, di una crociata propagandistica usata per alzare il livello della tensione tra la Repubblica Popolare e l’Occidente. Il portavoce degli Affari Esteri cinesi, Wang Wenbin, ha spiegato settimane fa che quegli uffici non sarebbero altro che stazioni di servizio per i cittadini cinesi all’estero, e che la Cina ha pienamente rispettato la sovranità giudiziaria degli altri Paesi.
Al di là delle accuse e delle difese di parte, manca un tassello fondamentale: sulla base di quali accordi sono state create quelle strutture? E, soprattutto, quali sono le loro funzioni? Hanno davvero commesso illeciti?
Dal canto suo, la Cina non ha negato l’esistenza dei centri. Ha, semmai, negato il fatto che questi siti farebbero parte di una rete globale del terrore, e che servirebbero per realizzare l’operazione Fox Hunt. Un’operazione con la quale il governo cinese punterebbe a far rimpatriare oltre la Muraglia i funzionari fuggiti all’estero per evitare accuse di corruzione in patria, ma che, sempre secondo le accuse, verrebbe utilizzata da Pechino per arrestare normali cittadini per la loro presunta dissidenza politica.
Per quanto riguarda l’Italia, lo scorso marzo l’associazione culturale della comunità cinese di Fujian in Italia ha effettivamente aperto una sorta di sportello per il disbrigo di pratiche amministrative rivolto ai cittadini cinesi. L’associazione ha tuttavia dichiarato che la struttura forniva un servizio finalizzato ad aiutare i richiamati cittadini cinesi che, a causa della pandemia, non erano in grado di tornare in Cina. L’ong spagnola sostiene invece che il centro sarebbe servito per rintracciare eventuali oppositori da rispedire nella Repubblica Popolare.
Accordi e pattugliamenti
È tuttavia importante non far confusione mescolando le suddette strutture con altri accordi di cooperazione internazionali di polizia stilati tra la Cina e altri Paesi, e con l’esecuzione di pattugliamenti congiunti tra il personale delle rispettive polizie.
Lo ha chiarito anche il ministro dell’Interno italiano, Matteo Piantedosi: “Segnalo che il memorandum d’intesa per la esecuzione di questi pattugliamenti, firmato a L’Aia nel 2015, ha consentito lo svolgimento dal 2016 al 2019 delle attività di pattugliamento in Italia e dal 2017 al 2019 in Cina, per essere poi sospese nel 2020 a causa della pandemia e tuttora inattive”.
Per capire di cosa stiamo parlando bisogna fare un passo indietro e tornare ai tempi in cui la Cina lanciava in pompa magna la Belt and Road Initiative (BRI) cinese, nel tentativo di convincere più governi possibili ad aderire al mastodontico piano commerciale-infrastrutturale proposto al mondo intero da Xi Jinping. Decine e decine di Paesi hanno firmato accordi e memorandum per prender parte alla Nuova Via della Seta. I pattugliamenti congiunti nascono proprio da alcune di queste intese.
Già nel 2019, su InsideOver approfondivamo la questione parlando dei poliziotti cinesi in servizio lungo la ulica Knez Mihajlova di Belgrado, in Serbia. Il ragionamento alla base di quell’intesa era semplice: dal momento che la Serbia aveva appena aderito all’enorme progetto di Pechino, era lecito supporre che il flusso di turisti cinesi nel Paese balcanico sarebbe aumentato a vista d’occhio.
Ecco dunque che la Cina ha pensato bene di offrire il proprio contributo agli agenti serbi per aiutarli a gestire i viaggiatori che, di lì a qualche anno, sarebbero sbarcati in massa a Belgrado, ed evitare che qualcuno potesse trasgredire le normative vigenti. Ma oltre a chi arrivava in Serbia per turismo era fondamentale tutelare da eventuali criminali anche tutti coloro che si sarebbero stabiliti in loco per lavoro (un lavoro generato proprio dalla BRI). Risultato: nel 2019, per la prima volta e fino allo scoppio della pandemia, gruppi di due agenti di polizia serbi e due cinesi hanno pattugliato i punti di riferimento turistici di Belgrado. La citata Knez Mihajlova ma anche la fortezza di Kalemegdan, l’aeroporto Nikola Tesla e un centro commerciale cinese situato nella periferia della capitale.
La risposta di Serbia e Croazia
Il compito dei rinforzi cinesi era in un certo senso quello di fare da ponte tra le forze dell’ordine locali e la comunità cinese presente a Belgrado. L’iniziativa era inoltre frutto di un protocollo d’intesa siglato tra i ministri degli Interni di Cina e Serbia, firmato nel maggio 2019. Oltre al pattugliamento, l’accordo prevedeva anche esercitazioni congiunte di unità speciali di polizia e cooperazione per combattere la criminalità informatica.
Il ministero dell’Interno serbo ha affermato in una dichiarazione che Belgrado ha firmato un memorandum d’intesa con il ministero della Pubblica sicurezza cinese sui pattugliamenti congiunti della polizia nel maggio 2019, e che sei agenti di polizia cinesi erano presenti per pattugliamenti congiunti per un solo mese nell’autunno del 2019.
I ministeri degli Interni di Serbia e Croazia hanno tuttavia negato di aver consentito o di consentire alla Cina di gestire de facto “stazioni di polizia” nei loro Paesi che abbiano poteri coercitivi sui cittadini cinesi locali, molestandoli e intimidendoli. “Riteniamo che tali dichiarazioni e affermazioni infondate danneggino le relazioni tra i due paesi di Serbia e Cina, nonché la cooperazione che è sempre stata di alto livello”, ha tuonato Belgrado.
Anche il ministero dell’Interno croato ha ammesso che agenti di polizia cinesi sono stati inviati in Croazia, ma ha affermato che era solo per comunicare con i turisti cinesi. Ha aggiunto di non avere informazioni sull’esistenza o sul funzionamento di stazioni di polizia illegali a Zagabria o in Croazia. La Croazia ha anche ribadito che gli agenti di polizia cinesi erano presenti nel Paese, per aiutare a comunicare con i turisti cinesi, per un mese ciascuno nelle estati del 2018, 2019 e 2022.
Il caso italiano e africano
Anche in Italia era attivo un rapporto di cooperazione sulla scia della Nuova Via della Seta. Come riportato nel 2019 dal China Daily, tre gruppi di ufficiali cinesi erano stati inviati nel nostro Paese per pattugliare le principali città italiane (Roma e Milano) insieme alla polizia locale, e un quarto era dato in arrivo. In cambio, otto poliziotti italiani erano finiti in Cina tra Pechino, Shanghai, Guangzhou e Chongqing.
Leggermente diverso è quanto accaduto nel 2017 in Africa, nello Zambia, dove il governo locale, al fine di tutelare una comunità, quella dagli occhi a mandorla, sempre più numerosa, aveva pensato di assumere otto cittadini cinesi tra le fila delle forze dell’ordine locali. L’esperimento, travolto da polemiche di vario tipo, è durato giusto il tempo dell’annuncio. Questi pattugliamenti, in ogni caso, niente avrebbero a che fare con il dossier della ong.
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