Situato al largo della costa sud-orientale del subcontinente indiano, lo Sri Lanka è un’isola nota fino a poco tempo fa principalmente per le bellezze naturalistiche e, secondariamente, per il dinamismo della sua economia. Con il reddito pro-capite maggiore dell’intera regione, l’economia dell’isola, dotata di un alto grado di specializzazione e protagonista di un vero e proprio boom, sembrava infatti promettere al Paese un futuro di prosperità . Ciononostante, lo Sri Lanka è oggi divenuto uno Stato fallito in cui aleggia lo spettro della guerra civile, risultando protagonista di un crollo dalla rapidità incredibile. Spiegare le cause della brusca interruzione della parabola ascendente del Paese è esercizio estremamente importante, non solo per le conseguenti ricadute regionali, ma anche perché il collasso della vecchia Ceylon potrebbe rappresentare la prima tessera di un grande domino dagli effetti globali. Per tratteggiare un quadro coerente e il più esaustivo possibile verrà intrapreso un percorso in quattro passaggi fondamentali. Primo: l’economia dello Sri Lanka pre-collasso. Secondo: le cause congiunturali della crisi, ovvero la “tempesta perfetta”. Terzo: le cause strutturali della crisi, ossia i mali nascosti che hanno minato alle fondamenta le possibilità di sviluppo srilankese. Quarto: conclusioni finali, bipartite in possibili risvolti regionali e più ampio significato globale.
L’economia dello Sri Lanka
Ogni analisi dell’economia srilankese non può non partire dalla constatazione fondamentale per cui il Paese si trova in una condizione di disavanzo strutturale della bilancia dei pagamenti. Storicamente poco sviluppato, povero in materie prime e di dimensioni relativamente piccole, per garantire il benessere dei propri cittadini lo Sri Lanka importa più ricchezza di quella che riesce a generare. Tale condizione, apparentemente paradossale e insostenibile, è in realtà un caso standard di realtà “in via di sviluppo”: per ovviare al problema si ricorre al finanziamento delle spese tramite indebitamento, il quale a sua volta è sorretto dalle aspettative di crescita futura. La sostenibilità di tale modello, il quale si regge su indebitamento, dipendenza da capitali esteri e disponibilità di valuta forte (dollari) tramite cui pagare le importazioni, si basa dunque sulla capacità di creare aspettative positive di crescita economica tramite lo sviluppo di settori vocati all’export capaci, nel lungo periodo, di arricchire il Paese e migliorarne la bilancia commerciale. Con molta fatica, dopo una sanguinosa guerra civile (1983-2009) e una storia di politiche economiche miopi guidate dal principio dell’industrializzazione tramite sostituzione delle importazioni, Colombo sembrava finalmente riuscita a inserirsi entro una dinamica di crescita virtuosa. Lo Sri Lanka infatti ha aperto progressivamente la propria economia tramite una serie di riforme pro-mercato che hanno facilitato l’afflusso di capitali esteri, e, soprattutto, ha saputo promuovere un modello di crescita basato sullo sviluppo di settori labour intensive dediti alle esportazioni. Industria tessile e dell’abbigliamento, della gomma e degli pneumatici nonché delle telecomunicazioni hanno così emancipato il Paese dalla tradizionale dipendenza dalla monocoltura di tè, favorendo lo sviluppo da uno stadio agricolo a uno industriale, con annessa urbanizzazione. Come da manuale, l’isola si è integrata nelle catene globali del valore, creando fiducia attorno a un modello di crescita ritenuto virtuoso e ricalcante i casi di molti altri illustri omologhi asiatici. Assieme al crescente export industriale, Colombo ha poi potuto alimentare la propria rapida ascesa facendo affidamento su altre due fondamentali fonti di valuta pregiata, ossia le rimesse e il turismo, giunti a contare circa il 30% del PIL nazionale. Le prime provengono da un’importante diaspora di lavoratori residenti all’estero, in particolare nella regione del Golfo, mentre il turismo rappresenta un settore chiave, in breve divenuto uno dei pilastri fondamentali dell’economia isolana. A partire dal 2009, anno di conclusione della guerra civile, l’economia srilankese è stata protagonista di un decollo che, a detta di molti analisti, sembrava promettere al Paese un futuro di benessere e prosperità . Fino alla congiuntura attuale, in cui una serie di shock esogeni ha fatto emergere alcuni mali strutturali messi in ombra dal momento positivo.
Gli shock esogeni, ovvero la “tempesta perfetta”
Il collasso vissuto dallo Sri Lanka è innanzitutto da imputare a una serie di cause congiunturali che, con una tempistica a dir poco micidiale, hanno colpito al cuore il modello di sviluppo del Paese. Si tratta dunque di una vera e propria “tempesta perfetta”, la quale può essere ricondotta a tre cause fondamentali: impatto del covid, della guerra in Ucraina e delle politiche monetarie restrittive implementate dalla FED.
Per quanto riguarda il covid, la crisi epidemica ha agito a detrimento dell’economia srilankese seguendo due direttive fondamentali: in primo luogo, rallentando e/o interrompendo le catene di produzione globali, ha posto in difficoltà i decisivi settori legati all’export; in secondo luogo, e soprattutto, ha azzerato le fondamentali entrate derivanti da rimesse e turismo. In tal modo è stato drasticamente ridotto l’afflusso di valuta pregiata.
La guerra in Ucraina invece, determinando un generale rialzo dei prezzi delle materie prime, ha comportato un incremento del costo di beni d’importazione vitali per l’economia isolana, in particolare di benzina, fertilizzanti e, in parte, beni alimentari.
Se un primo momento gli stimoli anti-covid promossi dalla banca centrale americana hanno permesso all’economia del Paese di rimanere a galla, l’inizio delle politiche monetarie restrittive, col rialzo del tasso di interesse e l’apprezzamento del dollaro, ha messo a dura prova lo Stato asiatico. In primo luogo, per Colombo è divenuto insostenibile il mantenimento di un cambio forte tra dollaro e rupia, strategia che aiutava ad alleviare il costo delle importazioni. L’inevitabile abbandono di un cambio reso artificialmente forte, che ha lasciato la valuta alla mercé dei mercati, ha determinato il crollo della divisa, rendendo enormemente più costose importazioni e indebitamento, per non parlare della contrazione dei risparmi privati causata dall’inflazione (attorno al 60%). In secondo luogo si è verificata una fuga di capitali, allettati dagli crescenti margini di profitto offerti dal mercato finanziario statunitense e scoraggiati dall’incertezza che oggi regna nel Paese, ovvia concausa del crollo del valore della sua valuta. La difficoltà ad attrarre capitali esteri determina così un ulteriore aumento del costo dell’indebitamento, rendendo sempre più difficile reperire quella valuta pregiata necessaria per l’acquisto dei beni d’importazione.
Le cause strutturali, ossia il malgoverno del Paese
La tempesta perfetta che si è abbattuta sullo Sri Lanka difficilmente avrebbe potuto essere superata senza gravi ripercussioni sull’economia isolana, e tuttavia a determinare l’estrema gravità della crisi e — probabilmente — la sua persistenza, sono alcuni problemi strutturali che, nascosti dal boom economico, ne hanno minato alla base i presupposti.
I mali del Paese hanno la loro radice nel monopolio politico ottenuto dalla famiglia dei Rajapaksa e dal suo entourage, i quali hanno tratto il proprio capitale politico dalla vittoria nella guerra civile, dalla lotta al terrorismo, nonché — elemento più importante — da un violento nazionalismo che ha permesso di ottenere il supporto dalla popolazione cingalese buddista. La lunga permanenza ai vertici delle istituzioni di questa vera e propria dinastia, nonché un supporto plebiscitario derivante dalla politiche identitarie, hanno reso possibile lo svilupparsi di un’ampia rete clientelare, il dilagare della corruzione e, soprattutto, l’inizio di una serie di politiche economiche finanziariamente insostenibili. In particolare, al fine di distribuire favori e alimentare il proprio consenso, i governi Rajapaksa hanno sostenuto una crescita alimentata dal debito nei settori dell’edilizia e delle infrastrutture, facendo così venire meno il supporto ai settori labour intensive dediti all’export. Questo modello di crescita malata alimentata dal debito, come se non bastasse, è stato poi affiancato da una serie di provvedimenti scellerati, come il taglio delle imposte e il blocco all’import dei fertilizzanti (successivamento rimosso). Il primo ha ridotto le entrare dello Stato, aumentando enormemente il rapporto debito/PIL, mentre il secondo, causando la rovina del settore agricolo, ha condotto all’aumento delle importazioni una volta che il Paese è risultato incapace di soddisfare il proprio fabbisogno alimentare.
Insomma, al di là degli shock esogeni derivanti dalle molteplici crisi in corso a livello globale, lo Sri Lanka, optando per una classe politica inadeguata, aveva già iniziato ad erodere i fondamenti del decollo economico di cui è stato protagonista a partire dal 2009. In particolare, l’abbandono dei vettori di sviluppo sostenibile e l’affidamento su una crescita improduttiva alimentata dal debito estero hanno deteriorato la condizione finanziaria del Paese, incrementandone esponenzialmente la vulnerabilità e compromettendone seriamente le possibilità di ripresa. Data la fragilità strutturale di un’economia con un perenne deficit della bilancia commerciale, l’attuale crollo delle riserve di valuta estera e delle sue tradizionali fonti di afflusso, nonché l’aumento del costo delle importazioni e dell’indebitamento, pongono l’isola in una condizione a dir poco drammatica. Colombo, ufficialmente in default per la prima volta nella sua storia, non ha oggi il denaro per permettersi di acquisire i beni necessari a soddisfare i bisogni di base della popolazione. Blackout ricorrenti, carenza di medicinali e scarsità di benzina vanno così di pari passo con mancanza di carta e inchiostro e scuole costrette a chiudere per impossibilità di fare lezione. L’instabilità sociale inevitabilmente esplosa finisce infine, in un crudele circolo vizioso, col dissuadere il ritorno dei capitali esteri e impedire la ripresa del settore turistico. In tale contesto solo un salvataggio da parte di un attore esterno (ossia un’ingente immissione di capitali) potrebbe impedire lo scivolamento nel caos più totale, financo un ritorno alla guerra civile: l’instabilità che oggi affligge il Paese rischia infatti di riaccendere rivalità interetniche mai definitivamente sopita, rendendo il ritorno al conflitto tra cingalesi e tamil ipotesi più che mai concreta. Difficile immaginare l’assunzione del fardello del salvataggio da parte del FMI, istituzione naturalmente avversa alla condizione di incertezza che oggi aleggia nell’isola, e le cui probabili imposizioni — taglio della spesa pubblica, privatizzazioni, riforme strutturali etc. — risulterebbero impossibili da applicare nel contesto attuale. L’unica speranza per evitare il definitivo scadimento dello Sri Lanka a Stato fallito sarebbe allora l’intervento di un attore statale con forti interessi regionali. Verrebbero così schiuse le porte a una pericolosa concorrenza tra Delhi e Pechino.
Conclusioni: risvolti regionali e significato globale della crisi
Innanzitutto, il collasso dello Stato srilankese risulta rilevante a livello regionale poiché comporta la creazione di un vuoto politico che non potrà fare a meno di porre in competizione India e Cina per il suo riempimento. Da un lato Delhi — per ovvi motivi interessata alla stabilizzazione e al controllo del suo estero vicino — potrebbe cogliere l’occasione per riacquisire l’influenza sull’isola che recentemente aveva perduto a vantaggio di Pechino. Quest’ultima, nota per la propria disponibilità a concedere prestiti ai Paesi in via di sviluppo, potrebbe fare leva sui rapporti cordiali intessuti negli ultimi anni con Colombo (proprio in virtù di tale generosità ) per farsi affidare il bail-out del Paese dalle autorità isolane. Ciò che è certo, data l’importanza della posta in gioco — il controllo del proprio giardino di casa per Delhi e l’aggiramento della morsa statunitense per Pechino — è che il confronto tra i due giganti asiatici sarà serrato, senza possibilità di escludere un conflitto indiretto in una guerra per procura. In tale scenario non risulta inverosimile immaginare una fazione tamil supportata dall’India affrontare una maggioranza cingalese forte dell’appoggio cinese. Una possibile via di salvezza potrebbe essere una cordata composta da più più attori, compreso il FMI, e magari mediata da un Giappone interessato a evitare che il Paese scivoli nelle grinfie del Dragone.
Al di là delle implicazioni regionali, le vicende che oggi interessano lo Sri Lanka sono oltremodo significative poiché prodromo del terremoto geopolitico che minaccia di investire la galassia dei cosiddetti Paesi “in via di sviluppo”. Non solo tutti gli ingredienti della tempesta perfetta sembrano destinati a perdurare nel tempo, ma anche gli squilibri economici di cui è protagonista lo Sri Lanka — siano essi derivanti da caratteristiche strutturali o dal malgoverno dell’isola — risultano condivisi con molti altri Paesi in via di sviluppo. Non è necessario soffermarsi eccessivamente sulle caratteristiche macroeconomiche di tali realtà — disavanzo commerciale e dipendenza dalle importazioni, necessità di accumulare riserve di valuta forte e dipendenza da capitali esteri, ancoraggio al dollaro e costante pericolo di inflazione — per rendere conto della situazione in corso. Si tratta invece di riflettere sul fatto che ci si trova dinanzi a realtà che, per la propria stessa sopravvivenza, dipendono in maniera imprescindibile dalla globalizzazione, ossia dalla libertà di accesso a mercati che sopperiscano ai deficit strutturali di questi Stati (e ai quali essi non sarebbero in grado di sopperire autonomamente), siano essi capitali, know-how, lavoro, materie prime o consumi. La crisi della globalizzazione che oggi si staglia all’orizzonte dunque, sia essa determinata da shock esogeni o dalla riluttanza dell’egemone, minaccia di segnare la fine del mondo in via di sviluppo. Le conseguenze geopolitiche e umanitarie di ciò, come testimonia oggi il caos di cui è vittima lo Sri Lanka, sarebbero ovviamente gravissime. Chiamando in causa in primo luogo un Paese mediterraneo come l’Italia, collocato esattamente al confine con l’arco di instabilità che, coinvolgendo pressoché la totalità dell’Africa subsahariana, del Maghreb e gran parte del Medio Oriente, lambisce pericolosamente il vecchio continente.
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