L’inflazione è la grande paura per la Germania e la sua economia, un nemico ritenuto insidioso la cui pericolosità è percepita a livello sociale. Non poteva essere altrimenti in un Paese la cui economia è figlia dell’incontro tra il modello renano di capitalismo, di matrice protestante, e quello cattolico-bavarese, fondato sull’economia sociale di mercato: per la Germania e la sua società l’economia e i suoi modelli informano la società, gli equilibri interni, i rapporti tra i corpi intermedi. E l’inflazione è la perturbazione per eccellenza: danneggia il meccanismo di mercato, turba i rapporti tra salari, dinamiche delle imprese, organi sociali, crea incertezza. E in prospettiva, quella povertà che il modello vuole evitare.
La memoria dell’inflazione di Weimar
Il precedente storico del lungo decennio che condusse dall’iperinflazione di Weimar all’ascesa del nazismo (1923-1933) ha segnato radicalmente la storia e la politica tedesche. Tanto da portare l’inflazione stessa ad essere il grande tabù nel discorso politico germanico. Lo ricordiamo bene, pensando ai tempi dell’austerità merkeliana, in cui la deflazione interna e la compressione delle economie mediterranee ad alto indebitamento, spesso guidate da leader totalmente allineati alle logiche economiciste di Berlino (vedasi Mario Monti), fu ritenuta dalla Germania preferibile a qualsiasi politica monetaria e fiscale interventista. Il timore? L’aumento dell’inflazione. Che anche Mario Draghi ha dovuto limitare, come target, al 2%, per far digerire ad Angela Merkel il quantitative easing.
E di fronte a un’inflazione che in Germania, soprattutto per i rincari dei prezzi energetici, è arrivata nel luglio 2022 al 7,5% non si può non pensare al fatto che l’impatto psicologico e politico di questi rincari, senza precedenti per la Germania tornata unita, possono giocare un ruolo nel condizionare le scelte strategiche che Berlino prenderà per condizionare le politiche europee. “Il problema con cui abbiamo vissuto negli ultimi anni è stata piuttosto la pressione deflazionistica, cioè tassi di inflazione troppo bassi”, ha dichiarato all’Huffington Post lo studioso austriaco Philipp Heimberger, economista dell’Istituto di studi economici internazionali di Vienna. “I salari sono cresciuti poco, la disoccupazione è rimasta alta. È quindi difficile immaginare come in questo contesto possa innescarsi una spirale salari-prezzi che apra la strada all’inflazione galoppante. Siamo lontani, molto lontani dalla piena occupazione”. Motivo per cui, secondo l’economista austriaco, il problema ora “non è tanto l’inflazione ma le preoccupazioni eccessive per l’inflazione”. Vero nodo da tenere in considerazione quando di mezzo c’è la Germania.
Come esplose il costo della vita
Racconta Tucidide che nella marcia di avvicinamento alla Guerra del Peloponneso fu il timore reciproco di Atene e Sparta a creare le condizioni per la guerra aperta tra le due potenze elleniche. Lo stesso si può dire dell’inflazione. Spesso è il timore di conseguenze rovinose per i rincari dei prezzi a generare, per una strana eterogenesi dei fini, politiche economiche contraddittorie tali da far avverare i più foschi presagi. Accadde ai tempi della recessione dell’Eurozona: il mito dell’austerità espansiva, del pareggio di bilancio, della deflazione interna portò l’euro a un passo dal fallimento, diede fiato alle trombe dei movimenti populisti, da ultimo provocò la recessione che si temeva avrebbero causato manovre eccessivamente libertarie sui conti pubblici e inflattive. Soprattutto, esiste il grande precedente del 1923-1933.
Terrorizzata dallo choc dell’iperinflazione del 1923, la classe dirigente della Repubblica di Weimar finì per mettere in campo le scelte politiche distruttive che, al momento della verità, alimentarono i consensi del Partito Nazionalsocialista, esploso come movimento populista ed eversivo ai tempi del Putsch di Monaco guidato da Adolf Hitler e, dopo la sua scarcerazione in seguito al fallito golpe, esploso come forza di protesta capace di catalizzare la rabbia del ceto medio impoverito.
La Repubblica di Weimar aveva prodotto, soprattutto per la convergenza sui temi di Zentrum, il partito cattolico, e Spd, la principale formazione socialdemocratica, una Costituzione di avanzatissimo livello sociale per costruire le basi della Germania uscita sconfitta dalla Grande Guerra: suffragio universale esteso alle donne, libertà di assemblea, tutela delle libertà individuali e della proprietà, massime libertà sindacali. La cui attuazione fu messa fin dall’inizio in difficoltà dai vincoli con cui Berlino si confrontava. Come ha ricordato nel 2015 dall’ex governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio in una lectio magistralis tenuta a Trento per parlare delle conseguenze economiche della Grande Guerra, la pace punitiva di Versailles fu una di queste problematiche: “A causa delle esagerate riparazioni di guerra richieste dagli Stati vincitori, la Germania viveva gravi difficoltà dell’economia, anche per tentare di venire incontro, con sussidi e forme di occupazione fittizia, a quasi 6 milioni di uomini che dalla guerra erano rientrati nelle attività civili” e considerati la base sociale più fragile del Paese.
L’equilibrio, ha ricordato Fazio, venne trovato “ricorrendo progressivamente alla stampa di moneta. Il marco inizia a perdere valore nei confronti delle altre monete: salgono i salari e i prezzi, lo Stato riduce la disoccupazione creando nuova moneta. Nel 1919 l’aumento dei prezzi sale in un anno al 60%, nel 1920 del 240%. Nel 1923, a causa anche dell’invasione della Ruhr da parte dei francesi, sale tra il 15 e il 40% al giorno”. A novembre 1923 un chilo di pane costava 428 miliardi di marchi, un francobollo 100 miliardi. Il governo di Weimar ritirò il Reichsmark e lo sostituì con una nuova versione per decapitarne i rincari. Da allora in avanti, qualsiasi espansione di bilancio fu vista per anni in Germania come una vera e propria eresia. E sul fronte politico si prepararono i primi segni della svolta che si sarebbe concretizzata dieci anni prima.
Dall’austerità all’ascesa del nazismo
Quando nel 1929, infatti, la Grande Depressione travolse gli Usa, ritrovatisi a essere primi creditori della ricostruzione tedesca, il governo tedesco si trovò di fronte alla necessità di rafforzare la domanda interna per evitare che la tempesta finanziaria si tramutasse in uno tsunami industriale. Ma il governo centrista di Heinrich Bruning rimasto in carica dal 1930 al 1932 ebbe timore della lezione del 1923. La sua risposta alla crisi si sostanziò, dopo il voto del 1930, in un vero e proprio pacchetto di austerità: aumento del tasso di sconto, forti riduzioni delle spese dello Stato, aumento dei dazi doganali, riduzione dei salari e dei sussidi di disoccupazione. La mossa si inserì nella corsa globale alla trincerazione delle economie dietro i propri muri invalicabili che avrebbe causato un’estensione degli effetti della crisi. Cavalcando la rabbia popolare contro i “Brüning verordnet Not” (I decreti disagio di Brüning) Hitler trovò un’occasione per conquistare nuove posizioni di rilievo nella politica nazionale. Sospinto dal boom nazista al voto del 1930, che aveva portato il Nsdap dal 2,6 al 18,6% dei consensi, Hitler fece della battaglia contro il rigore di Bruning un simbolo della sua sfida per la rinascita del Paese. “Dal 1924 in poi la politica economica tedesca”, ricorda Fazio, “si è ispirata al concetto che la preoccupazione della stabilità monetaria dovesse prevalere su qualunque altra considerazione”. Il risultato? “Nel 1932 si parla in Germania di 6 milioni di disoccupati, ma forse erano 8 milioni, contro gli appena 800mila del 1928”. Su questa base di disperazione sociale il nazismo pescherà i suoi più grandi successi.
La “trappola di Tucidide” dell’inflazione era andata in scena. L’austerità scelta come risposta a quello che era una crisi da affrontare difendendo il potere d’acquisto, la produzione industriale, i salari e il lavoro aveva portato, per il timore di generare il carovita, a un disastro annunciato. La classe dirigente di Weimar aveva dimenticato la lezione di John Maynard Keynes: “La difficoltà non sta nelle idee nuove, ma nell’evadere dalle idee vecchie, le quali per coloro che sono stati educati, come la maggioranza di noi, si ramificano in tutti gli angoli della mente”. Per il potere repubblicano tedesco erano bastati solo sei anni. Non fu l‘iperinflazione di Weimar a causare l’ascesa del nazismo in forma diretta. Ma furono le politiche austerità pensate come alternative al terrore da carovita a dare il via alle conseguenze materiali di disastro sociale in cui lo spirito revanscista del partito di Hitler avrebbe prevalso con la maggioranza dei voti alle elezioni. Gregori Galofré-Vilà, dell’Università Bocconi, ha nel 2017 guidato un gruppo di ricerca che ha realizzato la pubblicazione dell’analisi Austerity and the rise of the Nazi Party uscita sul prestigioso National Bureau of Economic Research in cui si è dimostrato che proprio i distretti in cui la spesa pubblica fu decurtata maggiormente e il welfare trascurato videro il partito di Hitler dominare alle elezioni.
Ovviamente questo paragone storico non intende affermare che una reazione austeritaria, in caso di impennata odierna dell’inflazione, porterà a un esito simile, anche perché la storia mai si ripete uguale a sé stessa. Tuttavia, la più grande delle paure tedesche in economia, quella che ha spinto Angela Merkel e Wolfgang Schauble a imporre all’Europa il grande quinquennio del rigore tra il 2010 e il 2015, è tale da rappresentare un fattore di condizionamento politico e sociale importante ancora oggi. E senza capire gli errori del passato, che indicano nell’austerità e non nell’inflazione il vero male da abbattere, il rischio di logoramenti dell’intero Vecchio Continente, che oggi sarebbero devastanti per tutti i Paesi membri dell’Unione a partire dalla Germania stessa, rischia di amplificarsi. Come del resto già insegna, nel suo piccolo, la storia dello scorso decennio.
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