In seguito alla tempesta che si è abbattuta sul governo inglese guidato da Boris Johnson negli ultimi giorni – con la defezione di decine e decine di ministri e sottosegretari – alla fine il Primo ministro britannico è stato costretto a dimettersi come capo del Partito conservatore, decidendo però di rimanere Premier fino alla nomina di un nuovo leader: oltre 50 membri del suo governo, infatti, si sono dimessi nelle ultime 48 ore non lasciandogli altra scelta. Nel discorso pronunciato oggi davanti al 10 di Downing Street ha annunciato le sue dimissioni da leader dei Tory, dicendo di essere «immensamente orgoglioso dei risultati del governo», fra cui la Brexit e la crescita economica.
Non è la prima volta che l’esecutivo guidato da Johnson attraversa una crisi a causa degli scandali che hanno coinvolto diversi esponenti del partito e il Premier stesso: già lo scorso giugno, del resto, Johnson aveva dovuto affrontare un voto di sfiducia relativo al cosiddetto scandalo del Partygate, riuscendo a strappare la fiducia con 211 voti a favore e ben 148 contrari.
Questa volta ad innescare la miccia che ha fatto collassare l’esecutivo inglese è stata la vicenda che ha visto coinvolto il vicecapogruppo del Partito conservatore Chris Pincher che mercoledì scorso, dopo essersi ubriacato in un locale, ha molestato sessualmente due uomini alla presenza di colleghi e personaggi di spicco. Nonostante Johnson abbia inizialmente finto di non essere a conoscenza di ciò che gli accadeva intorno, è emerso chiaramente che i comportamenti di Pincher erano noti a tutti all’interno del Parlamento e addirittura alla moglie del Premier, Carrie, che già nel 2017 aveva segnalato il comportamento inaccettabile del deputato. Tuttavia, Johnson avrebbe deciso di nominarlo lo stesso all’interno del governo come suo fedelissimo.
La vicenda ha innescato una reazione a catena che ha portato infine il Premier a cedere: martedì sera si erano dimessi, infatti, due importanti ministri del governo, quello dell’economia Rishi Sunak e quello della salute Sajd Javid. Quest’ultimo, in particolare, ieri all’assemblea di Westminster ha pronunciato un duro atto d’accusa nei confronti di Johnson, asserendo che «troppe volte siamo stati costretti a dire bugie».
Nel pomeriggio, durante il Question Time alla Camera dei Comuni, il Premier aveva escluso nuove elezioni, dichiarando di voler proseguire fino alla fine del suo mandato nel 2024. Immediatamente dopo però, una delegazione di ministri – tra cui era presente anche il neonominato titolare dell’Economia Nadim Zahawi – si è recata a Downing Street per chiedere le sue dimissioni. Infine, in serata altri 29 ministri e sottosegretari hanno abbandonato il governo, creando un vero e proprio terremoto politico che ha condotto il Primo ministro britannico a recedere dal suo mandato.
In realtà, il “calvario politico” di Johnson è iniziato già pochi mesi dopo la sua schiacciante vittoria nel dicembre 2019: dopo aver portato brillantemente a termine la Brexit , grazie al suo chief advisor (capo consigliere), nonché stratega dell’uscita dall’UE – Dominic Cummings – sono cominciate per Johnson le prime picconate politiche: Cummings era stato accusato, infatti, di avere violato le regole anti-Covid e le difese che Johnson ha preso in suo favore gli hanno alienato le simpatie di alcuni Tories tradizionalisti. Lo stratega della Brexit è stato poi costretto ad abbandonare l’incarico nel novembre del 2020, diventando il primo importante fuoriuscito del governo. In seguito, lo scandalo del Partygate ha fornito nuova linfa ai dissidi interni al partito: Johnson aveva partecipato, infatti, ad una festa illegale nella sede del governo, nel momento in cui il Paese era in pieno lockdown nel maggio 2020. A seguire, la sconfitta alle suppletive di North Shropshire nel dicembre scorso e le dimissioni del capo negoziatore per l’uscita dall’UE David Frost hanno acuito la crisi e indebolito ulteriormente il governo conservatore.
Johnson ha cercato di distogliere l’attenzione dai vari problemi interni, concentrandosi sul fronte esterno: così la sua presidenza è stata caratterizzata inizialmente dal confronto duro con l’Unione europea sull’accordo per la Brexit e, successivamente, dal contrasto totale alla Russia e al sostegno all’Ucraina, ma anche dal sogno di rendere la Gran Bretagna autonoma e capace di agire strategicamente nell’ambito dell’alleanza con i Paesi anglofoni e la NATO.
In ogni caso, sotto la superficie degli scandali e dei dissidi interni, le cause reali della crisi appaiono più profonde e riguardano soprattutto la perdita di consenso di Johnson: le recenti sconfitte elettorali, alle locali e alle suppletive ai seggi di Wakefield e di Tiverton e Honiton, confermano l’insoddisfazione dell’elettorato britannico nei confronti del Primo ministro, travolto dalle critiche per il carovita e il rischio di recessione. Così, finché Johnson assicurava voti al partito è stato salvato dai colleghi di governo, ma non appena i risultati elettorali hanno deluso le aspettative, quest’ultimi non hanno esitato a defenestrarlo.
La vicenda politica inglese conferma, se ce ne fosse bisogno, l’estrema debolezza delle democrazie europee e occidentali in genere, caratterizzate da crisi continue, da faide interne sempre più marcate e, soprattutto, da un incolmabile divario tra cittadini e istituzioni: basti pensare alla recente debacle di Macron in Francia e alle perenni beghe partitiche e di palazzo della politica italiana. La Gran Bretagna non fa eccezione e così anche Boris Johnson, dopo aver parato colpi per due anni e mezzo, è stato costretto a capitolare sotto la scure di interessi e giochi di potere. Complici gli scandali di una classe dirigente che pare sempre più alla deriva non solo dal punto di vista politico, ma anche morale.
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