Non so quando Pierluigi Battista scrive del “pacifismo a senzo unico” (HuffPost, 15 luglio), come non immaginabile nel negare il sostegno alla lotta armata dei Vietcong contro l’aggressione USA, che cosa intenda ed a chi faccia riferimento. Il pacifismo che conosco io – in Italia promosso da Aldo Capitini e Danilo Dolci, da Giorgio La Pira e Ernesto Balducci – negli anni ’60 non chiedeva armi per la guerriglia vietnamita ma era impegnato per la risoluzione nonviolenta del conflitto, pur stando dalla parte degli oppressi. Esattamente come fanno oggi Movimento Nonviolento e Rete Italiana Pace e Disarmo. Non a caso punto di riferimento per tutti era Thich Nhat Hanh, monaco vietnamita proposto per il Premio Nobel per la pace da Martin Luther King proprio per l’impegno per la nonviolenza e la riconciliazione. E per questo indesiderato sia dal governo del Vietnam del Sud che da quello del Vietnam del Nord. Se c’è “manipolazione del linguaggio che ha raggiunto vette di perfezione” – come ha scritto Battista – dunque è proprio la sua, che fa confusione scrivendo cose scorrette e sbagliate. Rimane solo da capire se lo fa per perfetta ignoranza o per perfetta malafede. O per entrambe.
A me, invece – alzando lo sguardo oltre queste miserie giornalistiche – quella fase storica del pacifismo fa tornare in mente, tra le altre cose, un dialogo indiretto tra Aldo Capitini ed Eugenio Scalfari (morto il 14 luglio, al tempo fondatore e giornalista de L’Espresso) del 1967, pubblicato nel volume postumo di Capitini Il potere di tutti (1969), sul tema Guerriglia e nonviolenza, del quale – per la sua disarmante profezia sul piano interno e attualità sul piano internazionale – riporto qui alcuni stralci.
Guerriglia e nonviolenza
“L’interesse per la guerriglia, teorizzata e praticata, sembra che abbia spinto sullo sfondo l’interesse per la nonviolenza. Lo ha notato Scalfari ne L’Espresso del 30 luglio 1967 in un articolo intitolato La santa violenza: <<la violenza riappare con crescente intensità e va coprendo un’area sempre più estesa>>. Pareva che i giovani avessero scoperto il valore della nonviolenza. E invece è tornata l’attrattiva della violenza. Scrive Scalfari: <<Sono tutti, e in perfetta buona fede, amanti della pace, né più né meno di prima. Solo che, a differenza di prima, oggi hanno scoperto che la pace, questo bene inestimabile, il più grande di tutti, spesso si difende e si conquista con la guerra. Ed ecco il nuovo spettacolo degli amanti della pace, ciascuno dei quali sostiene la sua propria guerra mentre condanna le guerre degli altri. Nuovo spettacolo? In realtà si tratta di uno spettacolo vecchio quanto il mondo. Solo che noi che avevamo diciotto anni nel 1940, speravamo che tutti avessero capito, ritenevamo banditi per sempre i discorsi sulla virtù o quanto meno sulla necessità della violenza. Speravamo che si consolidasse e, soprattutto, che venisse raccolta e fatta propria dalle generazioni che seguivano e che fosse possibile sostituire un certo tipo di aggressivo vitalismo con un’alterità d’altra natura e di più alto livello spirituale. E’ doloroso, ma doveroso constatare che l’illusione è durata poco. Come può reagire a tutto ciò l’opinione “liberale”? Dimostrando caso per caso, problema per problema che la violenza non risolve nulla, non taglia nessun nodo, non suscita nessuna energia, ma aggroviglia ancora di più, rinviando all’infinito, ad altre violenze ed altre vendette? E’ una via lunga e difficile. Ma scorciatoie non ce ne sono>>.
“L’illusione non stava nella verità profonda che era stata scoperta, ma nel ritenere che tale verità fosse generalmente acquisita” – è il lungo commento di Aldo Capitini – “che il realismo politico avesse per sempre fatto posto alle lente costruzioni dei rapporti federativi tra le nazioni e dello sviluppo democratico di ogni popolo. L’illusione era credere che la tremenda lezione fosse bastata, e questo non era vero: altre ce ne vogliono e ce ne vorranno! (…) Si è perfino accolto il termine nonviolenza, non cercando di andare a fondo e capire ciò che significa. E’ venuto ora il periodo difficile, quello non più del plauso, ma dell’apparente fallimento, del ritorno dell’animo all’uso delle soluzioni violente, perché l’animo non era mutato affatto, e la mente non aveva ricercato attentamente e consolidato atteggiamenti diversi da quelli di Castro, di Dayan, dei Vietcong. (…)
“Restano due fronti ben chiari, quello della guerriglia, quello dell’intervento nonviolento. C’è in loro qualche lato simile per il fatto che essi contestano tutto il sistema, cioè mirano entrambi a stabilire un diverso potere, ed entrambi impegnano la vita in un atteggiamento straordinario e di estremo pericolo. La strategia della nonviolenza è in ritardo rispetto all’altra, ma si sta formando. Essa corrisponde a un momento ulteriore. Lo scatto alla guerriglia è immediato, la scelta della nonviolenza è mediata. Per la guerriglia, se si sa chi odiare e distruggere, basta prendere un’arma; per capire e maturare nel proprio animo la scelta della nonviolenza, ci vuole molto di più. Bisogna anzitutto comprendere che la guerriglia o la scelta della violenza, non è detto che sia sempre vittoriosa, tanto più oggi che esiste ben altro che il fucile. (…) Non è detto che l’uso della guerriglia, diffondendosi largamente con tutte le sue tecniche, tra cui il terrorismo, non crei nell’opinione dei più un desiderio di ordine esterno, comunque stabilito, e ciò vada a vantaggio delle forze repressive della reazione che almeno stabiliscono un certo ordine. (…)
“I fautori del metodo nonviolento muovono dal rifiuto della guerra e tendono ad attuare il principio della massima democratizzazione, in aggiunta al metodo elettorale, mediante un vastissimo controllo, informato ed attivo, con la disponibilità a contrastare tutto ciò che è ingiustizia, oppressione, sfruttamento: contrastando non solo a che ci siano sfruttati del capitalismo, ma anche privati della libertà di espressione, informazione, associazione, da parte di gerarchi politici o burocrati polizieschi. Che ancora nell’opinione di molti l’azione nonviolenta sembri meno incisiva e decisiva dell’azione violenta, deriva principalmente dal fatto che l’educazione degli uomini è ancora prevalentemente fondata non sul valore di ciò che viene affermato, e che talvolta provoca trasformazioni a lunga scadenza e profonde, ma sul risultato e il successo. Per questo, chi è persuaso della compresenza e dell’omnicrazia, non ha che da persistere nell’arricchimento dei motivi interiori che egli mette nell’uso della nonviolenza, motivi interiori che sono la premessa di un avvenire più complesso, che già comincia nell’atto stesso.”
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