Forse è il caso, o forse è il destino, ma se è vero che la storia è maestra di vita, che il passato è la bussola per orientarsi nel presente, non si può fare a meno di notare qualcosa: le più gravi crisi politico-militari della storia hanno avuto origine nelle linee di faglia, cioè nei punti di incontro e scontro tra potenze, imperi e civiltà.
Oggi è l’Ucraina, la triplice frontiera in cui si incrociano – da secoli – i destini di Europa, Turchia e Russia. Ieri fu la Polonia, la terra di mezzo tra cattolicesimo e ortodossia, tra latino e cirillico. E l’altroieri furono la Bosnia, crocevia di popoli e fedi, e la Repubblica Ceca, trincea tra papisti e luterani. Linee di faglia, maledizioni geografiche che ieri, oggi e domani sono state, sono e saranno le trincee di guerre cruente e le tombe di imperi audaci ma sprovveduti.
Non è un caso, forse, che la più grave escalation politico-militare tra l’Occidente e la Russia della contemporaneità sia scoppiata in un luogo, l’Ucraina, che è linea di faglia tra ponente e levante, tra Europa e Asia, sin dalla battaglia del fiume Kalka del remoto 1223. La storia suggerisce che non avrebbe potuto essere altrimenti: è il fato ineluttabile delle linee di faglia. Ma la domanda, comunque, sorge in maniera spontanea: questa crisi tremenda è il frutto dell’ineludibilità di un corso storico già scritto o, al contrario, della discalculia politica di coloro che non seppero, o non vollero, comprendere il Vladimir Putin delle origini?
Le origini (dimenticate) di Putin
L’Occidente ha una lunga storia di trascorsi complicati con capi carismatici del resto del mondo – il mondo non occidentale –, che, in quanto rappresentanti di alterità marcate, si sono rivelati difficili da maneggiare e facili da fraintendere. Con questi capi carismatici, a volte democrati e altre volte autocrati, comprendersi è sempre stato arduo e chiudere la relazione con un lieto fine, nella maggioranza dei casi, si è rivelato impossibile. E Vladimir Putin, il padre fondatore della Russia postsovietica, appartiene a questa categoria di leader legati all’Occidente da un rapporto di amore-odio.
Oggi è l’acerrimo nemico dell’Alleanza Atlantica, colui che sta combattendo in prima linea per la de-occidentalizzazione del sistema internazionale, ma quasi nessuno sembra ricordare che ieri, cioè all’inizio degli anni Duemila, Putin era un entusiasta liberale con il santino di Pietro il Grande e con il sogno di creare un’Europa estesa da Lisbona a Vladivostok.
Erano i tempi della grande anarchia, dell’economia ridotta allo stato brado, dell’integrità territoriale della Federazione minacciata dal terrorismo islamista e dai separatismi etno-religiosi della Transcaucasia, e Putin vedeva nell’Europa la stella polare che avrebbe dovuto orientare i passi di una nazione in fase di ricostruzione. Nelle ambizioni europeiste del capo del Cremlino non vi era nulla di antistorico: la Russia ha sempre prodotto dei capi lacerati dal possesso di un’identità troncata, cioè fieri del proprio lignaggio eppure colpiti da un inspiegabile complesso di inferiorità verso l’Europa, culla della civiltà da amare ed emulare.
Putin, all’epoca della prima presidenza, era uno zar, sì, ma più vicino al Pietro il Grande della Grande ambasciata (Вели́кое посо́льство) che al Nicola I dell’Ortodossia, Autocrazia e Nazionalità (Правосла́вие, самодержа́вие, наро́дность). Erano i tempi del grande disgelo, della nuova distensione, emblematizzati dalla creazione del Consiglio Nato-Russia nel 2002, dall’adesione del Cremlino alla Guerra al terrore della presidenza Bush e dagli accordi sugli spazi comuni siglati con l’Unione Europea nel 2003.
Putin, in quegli anni di febbricitante entusiasmo e dialogo intenso a tutti i livelli, aveva dichiarato a più riprese di essere un convinto sostenitore dell’Idea delle idee, ovvero l’edificazione di un’Europa estesa da Lisbona a Vladivostok, e non aveva mai nascosto di provare una certa simpatia verso l’Alleanza Atlantica, della quale non chiedeva la ristrutturazione, come oggi, ma alla cui adesione aspirava.
Come è noto, ed è questo il motivo per cui si è giunti allo scoppio della guerra in Ucraina, l’agenda filo-occidentale di Putin non conseguì i risultati desiderati, nessuno, rivelandosi una clamorosa débâcle per quell’ambizioso silovik chiamato dallo Stato profondo a salvare la Russia dall’oblìo. Lo spazio postsovietico cominciò a sperimentare un’ondata di rivoluzioni colorate. Gli accordi con l’Unione Europea non diedero luogo ad alcun cambiamento significativo nel reame del tangibile. E l’Alleanza Atlantica venne meno al celebre accordo tra gentiluomini siglato verbalmente con Mikhail Gorbačëv all’alba dell’implosione sovietica (“not one inch eastward!”), declinando la proposta di Putin di ponderare la candidatura della Russia ma spalancando le porte all’ingresso di Ucraina e Georgia.
Testimone di uno spazio postsovietico in via di ridimensionamento, e adirato per le molteplici promesse tradite, Putin avrebbe inaugurato un nuovo corso politico, simbolizzato dalla guerra in Georgia del 2008, che neanche il debole paragrafo del “reset” della prima amministrazione Obama poté alterare o rallentare. Anche perché quel riavvio, del resto, si sarebbe rivelato ingannevole alla prova dei fatti: accordi da una parte, operazioni di destabilizzazione dall’altra – tra le quali la cosiddetta Rivoluzione della neve in Russia del 2011; trampolino di lancio, tra l’altro, dell’allora semisconosciuto Aleksei Navalny. Il resto è storia.
Quando Putin flirtava coi leader europei
Prima che le relazioni fra Russia e Occidente subissero una battuta d’arresto con il colpo di stato rispondente al nome di Euromaidan, e con l’annessione della Crimea del 2014, c’era stato un periodo in cui i capi di stato europei e occidentali godevano di un ottimo rapporto con l’attuale presidente russo, Vladimir Putin, oggi nemico numero dell’emisfero occidentale per via dell’invasione dell’Ucraina che ha definitivamente affossato dei rapporti già controversi.
Prima della nuova Guerra Fredda, come alcuni l’hanno definita, c’era stato un tempo in cui lo sguardo dell’ex KGB volgeva a Occidente, e non a Oriente, verso la Cina. Come notava tempo addietro Stefano Magni su Atlantico Quotidiano, nel 2004, furono infatti i Paesi guida dell’Unione europea a convincere Putin a sottoscrivere il Protocollo di Kyoto, il primo impegno contro il riscaldamento globale, isolando gli Usa. Nel 2005, Vladimir Putin, il cancelliere tedesco Gerhard Schröder e il presidente francese Jacques Chirac si trovarono a Kaliningrad per coordinarsi in vista del G8 e concordare una strategia comune.
Esisteva una sorta di asse Mosca-Berlino-Parigi, che spesso coinvolgeva anche Roma, come dimostrato dagli ottimi rapporti fra Putin e l’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Tanto è vero che quando si parlò di un possibile futuro di Georgia e Ucraina nell’Alleanza Atlantica, voluto dagli Stati Uniti e dai Paesi dell’Europa centrale, concretizzando l’ulteriore espansione a est della NATO – tema attualissimo in queste ore di conflitto – Francia e Germania si opposero con veemenza a tale ipotesi, perfettamente consce dei rischi che quella scelta avrebbe potuto comportare sulle relazioni fra Russia ed Europa.
Putin aveva grande stima dell’allora presidente francese, Jacques Chirac e spese parole di elogio sul Financial Times nei confronti dello statista, in occasione della morte di quest’ultimo, risalente al settembre 2019. “È il leader che mi ha colpito di più, un uomo ricco di conoscenza, un vero intellettuale, quando era presidente aveva una sua opinione su ogni argomento e sapeva come difenderla rispettando sempre le opinioni dei suoi partner”, affermava il leader del Cremlino.
Stesso sentimento di stima reciproca che nutriva nei confronti del cancelliere tedesco Gerhard Schröder, che fu capo di una coalizione che riuniva i socialdemocratici (SPD) e i Verdi ambientalisti, dal 1998 al 2005. Basti pensare che uno degli ultimi atti di Schroeder come Cancelliere, nel 2005, fu l’autorizzazione a realizzare il gasdotto Nord Stream 2 di cui oggi tanto si parla. Dopo aver terminato la sua carriera politica, Schröder assunse inoltre importanti posizioni presso le società del gas di proprietà statale russa, Nord Stream e Rosneft.
Lo spirito (tradito) di Pratica di Mare
Come con Chirac e Schoreder, anche con Silvio Berlusconi Putin ha sempre avuto un ottimo feeling. L’allora presidente del Consiglio volò a Sochi il 2 aprile 2002 e fu ospite nella dacia di Putin sul Mar Nero. Era uno dei loro primissimi incontri. Dopo aver bevuto il tè russo davanti alle telecamere, i due discussero in una piccola stanza al secondo piano del grande sogno di fondare un nuovo consiglio per riunire la Russia e l’alleanza Nato. Fu proprio Silvio Berlusconi, infatti, il promotore, il 28 maggio 2002, dell’incontro storico a Pratica di Mare che immaginava una nuova era di collaborazione fra la Nato e la Russia alla presenza del presidente russo e dell’omologo statunitense, George W. Bush.
Furono gli stessi firmatari, come ricorda anche Sergio Romano, a parlare dell’accordo in termini molto positivi. Vladimir Putin, nel suo discorso a Pratica di Mare, spiegò che “la nuova realtà della nostra relazione riflette la comprensione reciproca a cui siamo arrivati. Credo che gli sforzi che abbiamo fatto per la pace debbano continuare: non abbiamo alternative”.
“Immagino che tra tutte le cose che ho fatto nella mia vita, questa potrebbe essere quella di cui sono più orgoglioso”, dichiarò il Cav in un’intervista rilasciata al Financial Times nel 2015 rispetto agli accordi di Pratica di Mare. “Questo è stato davvero il momento che ha segnato la fine della Guerra Fredda”. Una visione lungimirante e strategica, che purtroppo non tutti i leader occidentali hanno compreso. Un spirito, quello di Pratica di Mare, che purtroppo è stato tradito e che ha comportato delle conseguenze con cui oggi stiamo facendo i conti.
FONTE: https://it.insideover.com/storia/quando-putin-guardava-a-occidente.html
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