capitolo 3 del libro intitolato "ATTI DI AGGRESSIONE E DI CONTROLLO"
Il ruolo dei mezzi di comunicazione nella politica contemporanea ci costringe a chiederci in che tipo di mondo e in che genere di società vogliamo vivere e in particolare cosa intendiamo per società democratica. Comincerò con il contrapporre due diverse concezioni di democrazia. Una definisce democratica la società in cui il popolo ha i mezzi per partecipare in modo significativo alla gestione dei propri interessi e in cui i media sono accessibili e liberi. Una definizione di questo tipo si trova anche sul dizionario.
La concezione alternativa è quella che prevede una società in cui al popolo è proibito gestire i propri interessi e i mezzi di comunicazione sono strettamente e rigidamente controllati. Questa può apparire una forma di democrazia improbabile, ma è importante comprendere che si tratta della concezione prevalente. E lo è da lungo tempo, non solo nella prassi, ma anche nella teoria. Una lunga storia, risalente alle prime rivoluzioni democratiche moderne nell'Inghilterra del XVII secolo, riflette questa ideologia.
Nelle pagine che seguono mi occuperò del periodo contemporaneo, soffermandomi in particolare sullo sviluppo della seconda concezione di democrazia, e su come e perché il problema dei media e della disinformazione si inserisce in questo contesto.
La nascita della propaganda
Cominciamo con la prima operazione propagandistica di un governo moderno. Accadde durante l'amministrazione di Woodrow Wilson, che fu eletto presidente nel 1916 con un programma intitolato "Pace senza vittoria". La Prima guerra mondiale infuriava, e la popolazione americana era decisamente pacifista: riteneva che non ci fosse alcun motivo per farsi coinvolgere in un conflitto europeo. L'amministrazione Wilson invece era favorevole alla guerra, perciò doveva trovare un modo per ottenere il consenso popolare al proprio interventismo. Fu dunque istituita una commissione governativa per la propaganda, la Commissione Creel, che nel giro di sei mesi riuscì a trasformare una popolazione pacifista in un popolo fanatico e guerrafondaio, deciso a distruggere tutto quanto appartenesse alla Germania, a trucidare i tedeschi, a entrare in guerra e a salvare il mondo. Fu un grande risultato, il primo di una lunga serie. Già a quell'epoca e nel dopoguerra vennero utilizzate le stesse tecniche per scatenare un incontrollato red scare ("terrore rosso"), come fu chiamato, che riuscì a distruggere i sindacati e a cancellare pericolose abitudini come la libertà di stampa e la libertà di pensiero politico. L'appoggio dei media e del mondo degli affari, che di fatto organizzò e portò avanti gran parte dell'operazione, fu determinante, e il risultato fu un grande successo.
Fra quelli che parteciparono attivamente e con entusiasmo alla propaganda voluta da Wilson c'erano gli intellettuali progressisti, persone del circolo di John Dewey, i quali, come testimoniano i loro stessi scritti dell'epoca, erano molto orgogliosi di poter dimostrare che "i più intelligenti membri della comunità", cioè loro stessi, erano capaci di indurre alla guerra una popolazione riluttante, terrorizzandola e suscitando un fanatismo oltranzista. Il dispiegamento di mezzi fu ingente; per esempio, furono divulgate terribili storie sulle atrocità commesse dai tedeschi, cronache di bambini belgi con le braccia strappate e altri orrori di ogni sorta, che si trovano ancora nei libri di storia. Molte di quelle invenzioni erano frutto del ministero della Propaganda britannico, il cui impegno a quel tempo era finalizzato, come venne precisato nelle deliberazioni segrete, a "indirizzare il pensiero della maggioranza del mondo". Ma soprattutto miravano a controllare il pensiero dei membri più intelligenti della comunità statunitense, che avrebbero poi diffuso la propaganda da loro escogitata e convertito un paese pacifista all'isteria di guerra. Funzionò. Funzionò tutto perfettamente, e fu una lezione: la propaganda di stato, quando è appoggiata dalle classi colte e non lascia spazio al dissenso, può avere un effetto dirompente. Una lezione che Hitler e molti altri appresero a fondo e di cui si tiene conto ancora oggi.
La democrazia degli spettatori
Un altro gruppo che rimase colpito da tanto successo fu quello dei teorici della democrazia liberale e delle figure di spicco dei media, come per esempio Walter Lippmann, decano dei giornalisti statunitensi, grande critico della politica interna ed estera del paese e importante teorico della democrazia liberale. La raccolta dei suoi scritti ha come sottotitolo "Una teoria progressista del pensiero liberale democratico". Lippmann aveva partecipato alle commissioni di propaganda e ne riconobbe i risultati. Sostenne che quella che definiva "una rivoluzione nell'arte della democrazia" poteva essere usata per "fabbricare consenso", cioè ottenere mediante le nuove tecniche di propaganda l'appoggio della popolazione rovesciandone l'opinione. La riteneva un'idea non solo buona, ma addirittura necessaria perché, come spiegò, "gli interessi comuni sfuggono completamente all'opinione pubblica" e possono essere compresi e amministrati soltanto da una "classe specializzata" di "uomini responsabili", abbastanza intelligenti da capire come vanno le cose. Secondo questa teoria solo una ristretta élite, la comunità intellettuale cui si riferivano i seguaci di Dewey, è in grado di comprendere gli interessi comuni, che riguardano tutti e che "sfuggono al popolo". E' un ideologia vecchia di secoli, ed è anche una visione tipicamente leninista, molto vicina alla concezione del leader bolscevico che voleva un'avanguardia di intellettuali rivoluzionari condotta al vertice dello stato dalla forza del popolo, capace di guidare le masse verso un futuro che loro, per ignoranza, non erano in grado di immaginare. La teoria democratica liberale e il marxismoleninismo sono molto vicini nei presupposti ideologici. Penso che questa sia una delle ragioni per cui le persone sono passate così facilmente da una posizione all'altra senza avvertire un particolare cambiamento. Si tratta solo di stabilire dove si trova il potere: se c'è una rivoluzione popolare, allora il potere sarà dello stato; altrimenti lavoreremo per chi detiene il potere reale, cioè la comunità degli affari.
Ma in fondo sarà la stessa cosa: comunque guideremo le masse inette verso un mondo che loro non sono in grado di capire.
Lippmann ha supportato questa idea con una elaborata teoria della democrazia progressista. A suo parere, in una democrazia sana ci sono cittadini di diverse classi. La prima, che deve avere un ruolo attivo nella conduzione degli affari generali, è la classe specializzata, costituita da persone che analizzano, eseguono, prendono decisioni e gestiscono il sistema politico, economico e ideologico. Naturalmente si tratta di una minoranza esigua, ma chi sostiene tali teorie ne fa sempre parte e si pone il problema di che cosa fare per gli altri, quelli che sono al di fuori del gruppo, cioè la maggioranza della popolazione, definita da Lippmann "il gregge smarrito": dobbiamo guardarci "dallo scalpitio e dai belati del gregge smarrito". Dunque in una democrazia ci sono due "funzioni": quella dirigenziale, svolta dalla classe specializzata, dagli uomini responsabili, che pensano, pianificano e comprendono gli interessi comuni, e quella svolta dal gregge smarrito, la funzione dello "spettatore", di colui che non partecipa all'azione. Anzi, poiché viviamo in una democrazia, le funzioni della maggioranza sono molteplici: di tanto in tanto le è concesso di dare il suo appoggio a uno o all'altro dei membri della classe specializzata, di dire: "Vogliamo che sia questo il nostro capo", oppure "Vogliamo che sia quello". Dal momento che il nostro non è uno stato totalitario, ci sono le elezioni. Ma, una volta che ha dato appoggio all'uno o all'altro membro della classe specializzata, la maggioranza deve farsi da parte e diventare spettatore dell'azione, rinunciando alla partecipazione. Questo è ciò che accade in una democrazia che funziona a dovere.
Dietro a tutto ciò vi è una logica, addirittura un assunto morale imprescindibile, ed è il seguente: il popolo è troppo stupido per capire; se cerca di partecipare alla gestione dei propri interessi, combinerà senz'altro guai; di conseguenza sarebbe immorale e ingiusto consentirgli di farlo. Dobbiamo ammansire il gregge smarrito, impedirgli di aggirarsi scalpitante e selvaggio, e di distruggere tutto. E la stessa logica che vieta di lasciare che un bambino di tre anni attraversi da solo la strada: non gli si concede questo tipo di libertà perché non è capace di usarla.
Quindi dobbiamo trovare un sistema per ammansire il gregge, e questo sistema rappresenta una rivoluzione nell'arte della democrazia: la costruzione del consenso. I media, la scuola e la cultura popolare devono essere tenuti separati: alla classe politica e a chi gestisce il potere devono garantire un certo senso della realtà (non eccessivo), ma anche trasmettere le giuste convinzioni. A questo proposito esiste un tacito presupposto (e anche gli uomini responsabili devono scoprirlo da soli) sul modo di raggiungere la posizione che conferisce l'autorità decisionale: il solo modo, naturalmente, è servire chi detiene il potere reale, un gruppo molto ristretto di persone. Se un membro della classe specializzata si fa avanti e dichiara: "Sono in grado di servire i vostri interessi" entra per certo a far parte del gruppo decisionale. Ma affinché questo sia possibile deve avere interiorizzato le dottrine e le ideologie che serviranno gli interessi del potere privato. Se quest'uomo non ha tale capacità, non entrerà a fare parte della classe specializzata. Dunque c'è un sistema scolastico destinato agli "uomini responsabili", che dovranno essere profondamente indottrinati sui valori e sugli interessi del potere privato e del legame tra stato e affari che lo sostiene. Così si diventa membri della classe specializzata. Il resto della popolazione dev'essere principalmente distratto. Bisogna sviarne l'attenzione, distoglierlo dai guai, assicurarsi che rimanga il più possibile spettatore dell'azione, permettendogli di tanto in tanto di appoggiare l'uno o l'altro dei veri leader tra cui gli è consentito scegliere.
Questa teoria è stata ripresa e sviluppata da molti altri, ed è in realtà piuttosto convenzionale. Reinhold Niebuhr, per esempio, autorevole teologo ed esperto di politica estera, chiamato anche "il teologo dell'establishment", guru di George Kennan e degli intellettuali kennedyani, ha avanzato l'ipotesi che la razionalità sia una qualità posseduta da pochi. La maggior parte delle persone è guidata soltanto dall'emozione e dall'impulso. Chi di noi è dotato di razionalità deve creare "illusioni necessarie" e "ipersemplificazioni" di forte impatto emotivo per tenere sotto controllo gli ingenui e gli sciocchi. Questa idea è diventata parte sostanziale della dottrina politica contemporanea. Negli anni venti e nei primi anni trenta Harold Lasswell, fondatore del moderno campo delle comunicazioni e uno dei più importanti teorici politici statunitensi, spiegava che non dobbiamo soccombere al "dogmatismo democratico secondo cui gli uomini sono i migliori giudici dei propri interessi", perché è infondato. Noi siamo i migliori giudici degli interessi pubblici. Quindi, per questione di ordinaria moralità, dobbiamo assicurarci che questi uomini privi di giudizio non abbiano l'opportunità di agire. In quelli che oggi sono chiamati stati totalitari o regimi militari, è facile: basta impugnare il manganello e colpire chi esce dai ranghi. Ma quando la società è più libera e democratica occorre rinunciare a questa opportunità e adottare le tecniche della propaganda. La logica è chiara: la propaganda è per la democrazia quello che il randello è per lo stato totalitario. E una cosa buona e giusta perché, come sappiamo, gli interessi comuni sfuggono al gregge smarrito, che non riesce nemmeno a immaginarli.
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Fabbricare l'opinione
È inoltre necessario esortare la popolazione a sostenere le avventurose iniziative della politica estera. Di solito la popolazione è pacifista, proprio come lo è stata durante la Prima guerra mondiale, perché non vede ragioni per lasciarsi coinvolgere in massacri e torture. Quindi bisogna spronarla, e per spronarla occorre spaventarla. Lo stesso Bernays ha ottenuto un risultato importante in questo campo: è lui che ha condotto la campagna di pubbliche relazioni per la United Fruit Company nel 1954, quando gli Stati Uniti decisero di rovesciare il governo capitalista democratico del Guatemala, sostituendolo con un gruppo di assassini provenienti dalle fila degli squadroni della morte, ancora oggi al potere grazie ai costanti aiuti statunitensi finalizzati a prevenire svolte democratiche che non siano solo formali. Si rende necessario imporre di continuo programmi di politica interna cui il popolo è contrario, perché non ha ragione di appoggiare programmi che vanno contro ai propri interessi. E anche questo richiede una propaganda massiccia. Negli ultimi decenni ne abbiamo visti molti esempi. Le politiche di Reagan, per esempio, erano estremamente impopolari. Due terzi degli elettori che lo avevano insediato alla Casa Bianca nel 1984 speravano che il suo programma non si sarebbe realizzato. Se ne esaminate i punti, uno a uno, come quello relativo agli armamenti o al taglio della spesa sociale, capirete che la popolazione era fortemente contraria alla politica reaganiana. Ma finché viene costretta al ruolo di semplice spettatore, non ha modo di organizzarsi o di esprimere ciò che pensa, né di venire in contatto con altri che condividano la sua stessa opinione. La persona che nei sondaggi afferma di preferire la spesa sociale alla spesa militare (come ha fatto una larghissima maggioranza) si convince di avere convinzioni folli, perché non ha mai sentito affermare niente di simile e crede che nessuno la pensi così. Chi dà questo tipo di risposte nei sondaggi si pone in qualche modo al margine, e poiché non ha occasione di incontrare altre persone che condividano o rafforzino il suo punto di vista e lo aiutino ad articolarlo, si sente diverso, escluso. Così si fa da parte e non presta attenzione a quanto accade.
Fino a un certo punto, quindi, l'ideale di democrazia è stato realizzato, anche se non completamente. Ci sono istituzioni, infatti, che fino a oggi è stato impossibile distruggere. Le Chiese, per esempio, esistono ancora. Buona parte dell'attività dissidente negli Stati Uniti proviene dalle chiese, per la semplice ragione che esistono. Nei paesi europei la partecipazione politica avviene con ogni probabilità nelle sedi sindacali. Negli Stati Uniti questo non può accadere, perché i sindacati sono rarissimi, e quelli che ci sono non rappresentano organizzazioni politiche. Ma le Chiese ci sono e spesso i discorsi politici vengono fatti in quelle sedi. Le attività dei gruppi di solidarietà con il Centroamerica sono nate principalmente nelle Chiese.
Il gregge smarrito non è mai abbastanza domato e quindi la battaglia è continua. Negli anni trenta ha levato la testa ed è stato tenuto a bada. Negli anni sessanta ci fu una nuova ondata di dissenso, etichettata dalla classe specializzata "crisi della democrazia". La crisi consisteva nel fatto che ampi settori della popolazione si stavano organizzando e cercavano di partecipare concretamente all'attività politica. Qui si ritorna alle due concezioni di democrazia. Secondo la definizione del dizionario, si trattava di un progresso; secondo la concezione predominante, invece, era un problema, una crisi che occorreva superare. La popolazione doveva essere ricondotta all'apatia, all'obbedienza e alla passività che costituiscono la sua giusta condizione. Bisognava fare qualcosa per superare la crisi, ma gli sforzi fatti non ebbero successo. La crisi della democrazia è ancora in atto, per fortuna, ma non si è dimostrata molto efficace nel cambiare la politica. Riesce tuttavia a cambiare le opinioni, contrariamente a quanto credono molti. Dopo gli anni sessanta sono stati fatti grandi sforzi per rovesciare e sconfiggere questa "malattia", che in certe manifestazioni ha ricevuto addirittura un nome: "sindrome del Vietnam", per esempio. La sindrome del Vietnam, definizione che ha cominciato a circolare intorno al 1970, è stata anche descritta: l'intellettuale reaganiano Norman Podhoretz l'ha definita "la malsana inibizione suscitata dall'uso della forza militare". Una larga parte della popolazione ne è stata affetta, non riuscendo a capire perché si dovessero torturare, ammazzare e bombardare popolazioni di altri paesi. È molto pericoloso contrarre quella malsana inibizione, come aveva ben capito Goebbels, perché può ostacolare la conquista del mondo. E necessario, come ha affermato il Washington Post con un certo orgoglio durante l'isteria collettiva della guerra del Golfo, inculcare nel popolo il rispetto per il "valore militare". Certo, è una cosa importante: se il disegno politico è la costruzione di una società violenta che usa la forza nel resto del mondo per raggiungere gli scopi voluti dall'élite che la governa, è necessario dimostrare apprezzamento per il "valore militare", e non lasciarsi fuorviare da sciocche inibizioni sull'uso della violenza. È necessario superare la sindrome del Vietnam.
La rappresentazione come realtà
È necessario inoltre falsare radicalmente la storia. È un'altra strategia per sconfiggere le assurde inibizioni: far apparire le cose in modo tale che, quando gli Stati Uniti attaccano e distruggono un paese, sia chiaro che lo stanno proteggendo da mostruosi aggressori.
Fin dalla guerra del Vietnam lo sforzo per ricostruire la storia è stato enorme. Troppa gente allora cominciava a capire com'erano andate veramente le cose, tra cui moltissimi soldati e giovani impegnati nel movimento pacifista e in organizzazioni analoghe. Una pessima cosa: era necessario risanare quei pensieri malati, trasformarli in consenso e indurre il popolo al riconoscimento che tutto quel che facciamo noi americani è nobile e giusto. Se bombardiamo il Vietnam del Sud è perché lo stiamo difendendo da qualcuno, evidentemente dai sudvietnamiti, visto che lì ci sono solo loro. E' quella che gli intellettuali kennedyani, tra cui Adlai Stevenson, chiamarono difesa contro "l'aggressione interna": era necessaria una definizione ufficiale che fosse comprensibile, e questa funzionò perfettamente. Quando i media sono sotto controllo, il sistema scolastico e il mondo della cultura sono allineati, il consenso e assicurato.
L'università del Massachusetts ha condotto uno studio interessante sugli atteggiamenti nei riguardi della crisi del Golfo, allora in corso: l'intento era di conoscere la disposizione mentale con cui le persone guardavano la televisione. Una delle domande era: "Quante vittime vietnamite ci sono state secondo voi durante la guerra del Vietnam?". La risposta media del cittadino statunitense è stata: circa centomila. La stima ufficiale è di quasi due milioni, mentre la cifra reale si aggira probabilmente attorno ai tre o quattro milioni. Gli autori della ricerca proposero poi un'altra domanda: "Cosa pensereste della cultura politica tedesca se, domandando ai tedeschi di oggi quanti ebrei siano morti nell'Olocausto, rispondessero: circa trecentomila? Cosa ci rivelerebbe questa risposta sulla cultura politica tedesca?". La domanda è rimasta in sospeso, ma noi possiamo riprenderla. Cosa ci dice della cultura di noi americani? Che è necessario vincere le malsane inibizioni sull'uso della forza militare e le altre idee che esprimono dissenso. Nel caso della guerra del Golfo ha funzionato, e lo stesso si può dire per qualsiasi altra questione (il Medio Oriente, il terrorismo internazionale, l'America Centrale): l'immagine del mondo che viene presentata al popolo ha solo una remotissima relazione con la realtà. La verità resta sepolta sotto un enorme castello di bugie. Per scongiurare la minaccia della democrazia, in condizioni di libertà, si è dimostrata una strategia molto efficace; a differenza di quanto avviene negli stati totalitari, in cui si ricorre alla forza, questi risultati sono ottenuti in condizioni di libertà. Se vogliamo capire la società in cui viviamo, dobbiamo riflettere su questi fatti.
La cultura del dissenso
Malgrado tutto, la cultura del dissenso è sopravvissuta ed è cresciuta parecchio dagli anni sessanta, quando cominciò, molto lentamente, a svilupparsi. Non ci fu alcuna protesta contro la guerra d'Indocina se non anni dopo, con l'inizio dei bombardamenti americani sul Vietnam del Sud, e anche allora il dissenso fu circoscritto a un movimento costituito per la maggior parte di studenti e di giovani. Negli anni settanta le cose erano decisamente cambiate. Si erano formati movimenti popolari importanti: quello ambientalista, quello femminista, quello contro il nucleare e altri ancora. Negli anni ottanta c'è stata un'ulteriore espansione con i movimenti di solidarietà, un fenomeno nuovo e importante nella storia del dissenso, almeno in quella degli Stati Uniti. Queste organizzazioni non limitavano la loro attività alla protesta, ma miravano a un vero e proprio coinvolgimento, spesso intimo, della popolazione nella sofferenza di persone lontane; queste esperienze hanno insegnato molto agli americani e hanno avuto un effetto civilizzante su tutta la società: coloro che sono stati coinvolti in questo genere di attività per molti anni devono esserne consapevoli. Io stesso mi rendo conto che le mie conferenze nelle regioni più reazionarie del paese (la Georgia centrale, il Kentucky rurale eccetera) sono pari a quelle che avrei potuto tenere nel momento culminante del movimento per la pace davanti a un pubblico di attivisti. Certo, la gente può anche non essere d'accordo, ma almeno capisce di cosa si sta parlando ed è possibile trovare un punto di contatto.
Sono tutti segni di un processo di civilizzazione, a dispetto della propaganda, delle strategie messe in atto per controllare il pensiero e manipolare il consenso. La gente inoltre sta acquistando la capacità e la volontà di capire a fondo gli avvenimenti. Lo scetticismo nei confronti del potere è cresciuto e l'atteggiamento è mutato rispetto a molte questioni. E un cambiamento lento, come la deriva dei continenti, ma incisivo e importante. Se sia abbastanza veloce da produrre una differenza significativa in quel che accade nel mondo è un'altra faccenda. Consideriamo, per esempio, la differenza tra i sessi. Negli anni sessanta l'atteggiamento di uomini e donne rispetto ad argomenti quali le "virtù militari" e l'impiego dell'esercito era praticamente identico. Nessuno, uomo o donna, manifestava remore di questo tipo nei primi anni sessanta: tutti pensavano che l'uso della violenza contro altri popoli fosse legittimo. Ma con il passare degli anni le cose sono cambiate, e l'inibizione si è diffusa un po' dappertutto; in questo processo si è manifestato uno stacco, diventato poi una differenza sostanziale; secondo i sondaggi, riguarda circa il 25 percento della popolazione. Che cosa è accaduto? E accaduto che si è formato un movimento popolare parzialmente organizzato di cui sono protagoniste le donne, il movimento femminista. Non si tratta di una vera e propria organizzazione di militanti, ma di un movimento informale che fa leva su uno stato d'animo comune il quale crea un'interazione fra le persone. E questo è particolarmente pericoloso per una democrazia come quella americana: se riescono a costituirsi delle organizzazioni, se la gente non si lascia più distrarre dalla televisione, comincia a cullare strane idee e a sviluppare malsane inibizioni contro l'uso della forza militare. Un pericolo che non è ancora stato scongiurato.
Una schiera di nemici
Anziché parlare dell'ultima guerra, vorrei parlare della prossima, perché è meglio essere preparati al futuro che ci attende. Oggi negli Stati Uniti è in atto un processo molto particolare, che per la verità si è già osservato in altri paesi: i problemi sociali ed economici si stanno aggravando con effetti potenzialmente catastrofici; coloro che detengono il potere non hanno alcuna intenzione di intervenire. Se si esaminano i programmi di politica interna dei governi dell'ultima quindicina d'anni (compresi quelli in cui il partito democratico era all'opposizione) non si trovano proposte concrete di intervento sui gravi problemi del sistema sanitario e scolastico, delle abitazioni, della disoccupazione, della criminalità, del vertiginoso aumento della delinquenza e della popolazione carceraria, del deterioramento dei centri urbani.
Nei primi due anni in cui George Bush è stato alla presidenza, tre milioni di bambini hanno oltrepassato la soglia della povertà, il debito è cresciuto sensibilmente, il sistema scolastico si è trovato sempre più in crisi, i salari reali sono rimasti pari a quelli della fine degli anni cinquanta per la maggior parte della popolazione e nessuno ha fatto niente. In tali circostanze bisogna distrarre il gregge smarrito perché, se si rende conto della situazione, potrebbe non accettare di subirne le conseguenze. Il campionato di calcio e le sitcom potrebbero non bastare più. Bisogna incitarlo ad avere paura dei nemici.
Negli anni trenta Hitler spinse i tedeschi ad avere paura degli ebrei e degli zingari: per difendersi bisognava sterminarli. Anche noi americani abbiamo i nostri metodi: nell'ultimo decennio, ogni uno o due anni, è stato inventato un grande mostro da cui era necessario difendersi. Eravamo abituati ad averne uno sempre a disposizione: l'Unione Sovietica. Ma poi come nemici i russi hanno perso la loro attrattiva, e siccome diventava difficile usarli a quello scopo, occorreva tirare fuori dal cappello qualche nemico nuovo. In realtà, George Bush è stato ingiustamente criticato per non aver saputo spiegare chiaramente come stavano le cose. Prima della metà degli anni ottanta, la minaccia era sempre la stessa: i russi. Poi quella minaccia non ha più avuto senso e Bush ha dovuto trovarne di nuove, come aveva fatto l'apparato di pubbliche relazioni di Reagan in precedenza. Alla conquista del mondo ci furono allora i terroristi internazionali, i narcotrafficanti, gli arabi impazziti e Saddam Hussein, il nuovo Hitler, uno dopo l'altro. Spaventate la popolazione, terrorizzatela, fatela sentire minacciata in modo che se ne stia chiusa in casa e non osi spostarsi. Poi ottenete una gloriosa vittoria su Grenada, Panamà o qualche altro esercito indifeso del Terzo mondo che riuscirete a polverizzare prima ancora di averlo visto schierato: proprio come è avvenuto. Allora ci sarà un sospiro di sollievo: siamo stati salvati all'ultimo minuto. Questo è uno dei modi in cui potete impedire al gregge smarrito di prestare attenzione a quanto sta realmente accadendo, distrarlo e controllarlo. Il prossimo mostro a entrare in scena sarà, molto probabilmente, Cuba: bisognerà continuare la guerra economica illegittima e probabilmente recuperare il terrorismo internazionale, riportandolo ai livelli dell'operazione Mongoose, organizzata dall'amministrazione Kennedy ai danni dell'isola, rimasta ineguagliata, salvo forse per la guerra contro il Nicaragua (per chi vuole considerarla terrorismo; la Corte mondiale in realtà l'ha trovata più simile a un'aggressione). C'è sempre un'offensiva ideologica che costruisce un mostro, e poi organizza una campagna militare al fine di annientarlo. Se il nemico è in grado di difendersi, questa strategia diventa troppo pericolosa; ma se c'è la certezza di poterlo sconfiggere, allora si parte all'attacco e tutti potranno tirare un sospiro di sollievo per lo scongiurato pericolo.
Una percezione selettiva
È una storia che sta andando avanti da un bel po'. Nel maggio del 1986 furono pubblicate le memorie di un ex prigioniero cubano, Armando Valladares, che divennero subito un evento sensazionale per i media. Riporto un paio di citazioni. I giornali definirono le sue rivelazioni come "il resoconto definitivo del vasto sistema di torture e prigionia con il quale Castro punisce e cancella l'opposizione politica". "Una indimenticabile, appassionante testimonianza" delle "prigioni bestiali", delle "torture disumane [e] delle violenze di stato [compiute da] uno dei tanti genocidi di questo secolo" che, come abbiamo finalmente appreso da questo libro, "ha creato un nuovo dispotismo che ha istituzionalizzato la tortura come meccanismo di controllo sociale" in quell'inferno che era la Cuba in cui viveva [Valladares]". Così hanno scritto il Washington Post e il New York Times in diverse recensioni. Castro era descritto come un "kapo dittatoriale". Le sue atrocità erano rivelate in quel libro in modo così evidente che "soltanto i più vacui e freddi tra gli intellettuali occidentali prenderanno le difese del tiranno", scrisse il Washington Post. Ricordate, questo è il racconto di quanto accadde a un solo uomo. Supponiamo pure che sia tutto vero; non mettiamo in dubbio quel che è accaduto all'unico cubano che afferma di essere stato torturato. Alla cerimonia celebrativa per il giorno dei diritti umani, tenutasi alla Casa Bianca, Valladares fu ricordato da Ronald Reagan per il suo coraggio nel resistere agli orrori e al sadismo di quel sanguinano tiranno cubano. Quindi fu designato rappresentante degli USA presso la Commissione delle Nazioni Unite per i diritti umani, dove ha potuto rendere un buon servizio in difesa dei governi salvadoregno e guatemalteco, accusati di avere commesso atrocità tanto terribili da far apparire insignificanti, al confronto, quelle da lui subite. Così va il mondo.
Era il maggio del 1986. È un caso interessante e mette in luce il meccanismo della fabbrica del consenso. Quello stesso mese, i membri sopravvissuti del Gruppo per i diritti umani del Salvador (i leader erano stati assassinati) furono arrestati e torturati, incluso Herbert Anaya, che ne era il capo. Furono rinchiusi nella prigione di La Esperanza, e da lì continuarono la loro attività in difesa dei diritti umani. Erano avvocati, e riuscirono a raccogliere dichiarazioni giurate. In quella prigione c'erano quattrocentotrentadue prigionieri, e loro ne raccolsero quattrocentotrenta, firmate, nelle quali i detenuti descrivevano, sotto giuramento, le sevizie cui erano stati sottoposti: tortura elettrica e altre atrocità, compresa, in un caso, la tortura praticata da un maggiore statunitense in uniforme, che viene descritto dettagliatamente. Si tratta di una testimonianza insolitamente esplicita ed esauriente, forse unica per la ricchezza di dettagli su quanto avviene in una camera di tortura.
Questo rapporto di centosessanta pagine fu fatto uscire dalla prigione, assieme a una videocassetta con le testimonianze registrate che fu distribuita dalla Marin County Interfaith Task Force. La stampa nazionale si rifiutò di scriverne. Le stazioni televisive rifiutarono di trasmettere il video. Ci fu un articolo sul giornale locale di Marin County, il San Francisco Examiner, e credo che sia stato l'unico. Nessun altro volle farsi coinvolgere. In quel periodo c'era più di un "intellettuale occidentale vacuo e dal cuore freddo" a cantare le lodi di José Napoleòn Duarte e di Ronald Reagan. Ad Anaya non fu tributato alcun onore, non fu invitato nel giorno dei diritti umani, non gli fu attribuita alcuna carica. Fu rilasciato in occasione di uno scambio di prigionieri e in seguito assassinato, a quanto pare dai militari spalleggiati dagli Stati Uniti. Anche di questo è stata data scarsa notizia. I media non si chiesero mai se la divulgazione delle atrocità (anziché la censura e il silenzio) avrebbe potuto salvargli la vita.
Questo esempio lascia ben intendere come opera un sistema di fabbricazione del consenso efficiente. Paragonate alle rivelazioni di Herbert Anaya sul Salvador, le memorie di Valladares sono ben poca cosa. Ma loro devono condurci un passo alla volta verso la prossima guerra, e sono convinto che si parlerà sempre più di questo caso, finché si arriverà a un conflitto.
A tale proposito, vorrei ritornare allo studio dell'università del Massachusetts già citato, che trae interessanti conclusioni. I ricercatori chiedevano agli intervistati se pensavano che gli Stati Uniti dovessero intervenire con la forza in caso di occupazioni illegittime o di gravi abusi dei diritti umani. All'incirca due su tre pensavano di sì: l'America doveva usare la forza nel caso di occupazione illegittima di territori o di abusi gravi dei diritti umani. Se dovessero seguire quel parere, gli Stati Uniti dovrebbero bombardare El Salvador, Guatemala, Indonesia, Damasco, Tel Aviv, Città del Capo, Turchia, Washington e un lungo elenco di altri stati, tutti colpevoli di occupazione illegittima, aggressione e gravi abusi. Se conoscete questi casi, saprete benissimo che l'aggressione e le atrocità commesse da Saddam Hussein rientrano ampiamente nella media, non sono di certo le più gravi. Ma perché nessuno arriva a questa conclusione? La ragione è che nessuno conosce la realtà dei fatti. In un sIstema di propaganda efficiente nessuno sa a che cosa mi riferisco quando cito questi esempi. Ma se qualcuno si preoccuperà di verificarli, vedrà che sono significativi.
Prendiamone uno che ha rischiato vergognosamente di venire alla luce durante la guerra del Golfo. In febbraio, nel pieno dei bombardamenti, il governo del Libano ha richiesto a Israele di osservare la risoluzione 425 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che lo esortava a ritirarsi immediatamente e senza condizioni dal suo territorio. La risoluzione risaliva al marzo del 1978. Da allora ci furono altre due risoluzioni che chiedevano il ritiro immediato e incondizionato di Israele dal Libano. Naturalmente non sono state osservate perché gli Stati Uniti appoggiano l'occupazione israeliana del territorio libanese. Anche adesso il Sud del Libano vive nel terrore: ci sono grandi camere di tortura in cui accadono cose atroci, e la zona viene usata come base per attaccare le altre parti del paese. Dopo il 1978 il Libano fu invaso, la città di Beirut bombardata, circa ventimila persone, di cui l'80 percento civili, furono uccise, gli ospedali distrutti; terrore, saccheggi e rapine devastarono il paese. Ma gli Stati Uniti erano d'accordo, perciò andava tutto bene. E questo è solo un caso. I media tacquero, né vi fu alcun dibattito sulla risoluzione 425 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite o su tutte le altre risoluzioni ignorate da Israele e dagli Stati Uniti; nessuno ha chiesto il bombardamento di Tel Aviv, come ci si sarebbe dovuti aspettare stando ai risultati della ricerca effettuata dall'università del Massachusetts. Dopotutto si trattava di occupazione illegittima e di gravi abusi dei diritti umani. E questo è solo un caso, ce ne sono di molto peggiori. L'invasione indonesiana di Timor Est ha causato quasi duecentomila vittime. Le altre sembrano poca cosa rispetto a questa, che fu ed è ancora fortemente appoggiata dagli Stati Uniti grazie all'impegno diplomatico e militare americano. E potrà continuare per molto tempo.
La guerra del Golfo
Questo spiega come opera un sistema di propaganda ben funzionante. La popolazione può credere che quando aggrediamo militarmente l'Iraq lo facciamo perché osserviamo il principio secondo cui l'occupazione illegittima e l'abuso dei diritti umani devono essere contrastati con la forza. Grazie all'effetto della propaganda non ci si accorge di che cosa accadrebbe se quei principi venissero applicati al comportamento degli Stati Uniti.
Consideriamo ora un altro esempio. Se si osservano attentamente i resoconti dei media sulla guerra dall'agosto del 1990 ci si accorge che mancano due voci importanti. In Iraq c'è un'opposizione democratica, molto coraggiosa e concreta. I suoi membri naturalmente agiscono in esilio, perché in patria non potrebbero sopravvivere. Stanno soprattutto in Europa, sono banchieri, ingegneri, architetti. Sono organizzati e hanno dei rappresentanti. Il febbraio dell'anno precedente, quando Saddam Hussein era ancora amico prediletto e partner commerciale di George Bush, si presentarono a Washington, secondo le fonti dell'opposizione democratica irachena, per chiedere un appoggio alla loro richiesta di una democrazia parlamentare in Iraq. Furono respinti brutalmente, perché gli Stati Uniti non erano interessati al progetto. Nel dibattito pubblico non vi fu alcuna reazione.
Da agosto divenne un po' più difficile ignorare la loro esistenza: allora, dopo averlo sostenuto per molti anni, gli Stati Uniti si schierarono improvvisamente contro Saddam Hussein. Gli oppositori democratici iracheni avrebbero avuto qualcosa da dire, e sarebbero stati felici di vedere Saddam Hussein sconfitto: aveva ucciso i loro fratelli, torturato le loro sorelle e li aveva cacciati dal loro paese. Avevano combattuto contro di lui per tutto il periodo in cui Ronald Reagan e George Bush lo avevano colmato di gentilezze. Cosa ne è stato delle loro voci? Date un'occhiata ai media nazionali e vedete quante notizie riuscite a trovare sull'opposizione democratica in Iraq dall'agosto del 1990 al marzo del 1991: neppure una parola. Non perché non avessero nulla da dire: avevano dichiarazioni, proposte, appelli e richieste che coincidono precisamente con quelle del movimento pacifista statunitense. Erano contro Saddam Hussein e contro la guerra all'Iraq, non volevano che il loro paese venisse distrutto, chiedevano una soluzione pacifica e sapevano perfettamente che era possibile ottenerla. Ma queste erano idee sbagliate e quindi dovevano essere ignorate. Per saperne qualcosa bisognerebbe consultare la stampa tedesca o quella inglese. Non dicono molto, ma sono meno controllate di quella americana.
Anche questo è un grande risultato della propaganda. Innanzitutto, perché le voci dei democratici iracheni sono state completamente ignorate, e poi perché nessuno si è reso conto della censura. Anche questo è un dato interessante: solo una popolazione profondamente indottrinata poteva non accorgersi del silenzio dell'opposizione democratica irachena e non chiedersene il perché, che è ovvio: perché l'opposizione democratica in Iraq si trova sulle stesse posizioni del movimento internazionale per la pace.
Consideriamo ora le ragioni addotte dagli Stati Uniti per giustificare la guerra: l'aggressione di Saddam al Kuwait deve essere respinta con l'immediato ricorso alla violenza. Queste erano le ragioni, e nessun'altra è stata avanzata. Ma sono credibili? Gli Stati Uniti sostengono davvero questi principi? Non voglio far torto all'intelligenza dei lettori spiegando come si sono svolti i fatti, ma quelle ragioni possono essere confutate in due minuti da un bravo studente di scuola superiore. E tuttavia, nessuno lo ha mai fatto pubblicamente. Basta guardare ai media, ai commentatori e ai critici di sinistra, a coloro che hanno fatto dichiarazioni al Congresso, per constatare che nessuno ha messo in dubbio l'assunto che gli Stati Uniti sono fedeli a quei principi. L'America si è forse opposta alla sua stessa aggressione contro Panamà e ha deciso di bombardare Washington per contrastarla? Quando l'occupazione sudafricana della Namibia è stata dichiarata illegittima nel 1969, gli Stati Uniti hanno forse imposto un embargo su alimenti e medicinali? hanno dichiarato guerra? hanno bombardato Città del Capo? No, sono andati avanti per vent'anni con "pacifica diplomazia". La storia africana in quei vent'anni è stata drammatica. Solo nel periodo della presidenza di Reagan e di Bush circa un milione e mezzo di persone sono state uccise dalle milizie sudafricane nei paesi circostanti. Ma non importa, quel che accadde in Sudafrica e in Namibia non ha offeso le nostre anime sensibili. Abbiamo continuato con "pacifica diplomazia" e alla fine abbiamo ricompensato generosamente gli aggressori assicurando loro l'accesso al porto principale della Namibia e molti vantaggi che tenevano conto dei loro interessi in materia di sicurezza. Dov'erano i principi a cui siamo fedeli? È un gioco da ragazzi dimostrare che non è possibile invocare quei principi come ragioni per entrare in guerra, dato che non è vero che li difendiamo. Ma nessuno l'ha fatto: questo è il dato importante. E nessuno si è preso il disturbo di trarre la seguente conclusione: non è stata data alcuna ragione valida per l'entrata in guerra. Come ho già detto, questa è la prerogativa di una cultura totalitaria. Dovrebbe spaventarci il fatto di vivere in un paese che riesce a farci accettare una guerra ingiustificata, senza informarci sulle richieste o sugli interessi del Libano. Dovremmo trovarlo molto sorprendente.
Poco prima dell'inizio dei bombardamenti, a metà gennaio, un importante sondaggio del Washington Post e della ABC ha rivelato qualcosa di interessante. Alle persone veniva domandato: "Sareste favorevoli al ritiro dell'Iraq dal Kuwait in cambio dell'assicurazione che il Consiglio di sicurezza prenderà in esame il problema del conflitto araboisraeliano?". All'incirca due persone su tre erano favorevoli, come in tutto il resto del mondo, inclusa l'opposizione democratica irachena. E così il risultato del sondaggio fu reso pubblico. Presumibilmente ogni persona che si era pronunciata a favore credeva di essere la sola al mondo ad avere quell'opinione, dato che nessuno l'aveva sostenuta sui giornali. Gli ordini di Washington erano stati chiari, ci si aspettava che fossimo contro la diplomazia, e tutti marciavano al passo dell'oca eseguendo gli ordini. Cercando sulla stampa si può trovare una colonna di Alex Cockburn sul Los Angeles Times, che giudicava quella diplomatica la strada migliore. Chi rispondeva affermativamente al questionario pensava: questo è ciò che penso, ma lo penso solo io. Supponiamo però che sapessero di non essere i soli, che altri la pensavano così, per esempio l'opposizione democratica irachena. Supponiamo che sapessero che la domanda non era ipotetica, che l'Iraq aveva avanzato davvero quella proposta, come avevano riferito alti ufficiali statunitensi otto giorni prima, il 2 gennaio: l'Iraq era disposto a ritirarsi totalmente dal Kuwait se in cambio il Consiglio di sicurezza avesse preso in esame il conflitto araboisraeliano e il problema delle armi di distruzione di massa. Gli Stati Uniti avevano già rifiutato di negoziare quella richiesta ben prima dell'invasione del Kuwait. Supponiamo che la gente avesse saputo che quell'offerta era davvero sul tavolo delle trattative, che era appoggiata da più parti e che di fatto era l'unica cosa che ogni persona razionale e interessata alla pace potesse considerare, come accade nei rari casi in cui vogliamo davvero respingere un'aggressione. Supponiamo che tutto questo si sapesse. Si possono avanzare altre ipotesi, ma la mia è che i due terzi sarebbero probabilmente saliti fino al 98 percento della popolazione. Ed ecco i grandi successi della propaganda. Probabilmente tutte le persone che hanno risposto al sondaggio ignoravano i fatti che ho menzionato e credevano che nessuno condividesse la loro opinione. Per questo fu possibile procedere con la politica di guerra senza incontrare opposizione.
* Tratto da: Noam Chomsky "Atti di aggressione e di controllo" - Marco Tropea Editore
FONTE E ARTICOLO COMPLETO: https://www.tmcrew.org/archiviochomsky/il_controllo_dei_media.html
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