La Rivoluzione industriale in sé sarebbe una cosa fantastica per gli esseri umani. Infatti, Francesco Bacone, nel primo testo della fantascienza moderna – La Nuova Atlantide – vedeva nell’applicazione del sapere scientifico alla tecnologia da un lato lo scopo di salvare gli esseri umani (ma i viventi in generale) dal fardello della fatica fisica, dall’altro di offrirgli quanto più tempo libero per sviluppare i propri interessi, inseguire la felicità individuale e collettiva proprio grazie alla possibilità di dedicarsi alla conoscenza in tutte le sue forme.[1]
Il filosofo inglese, però, non aveva tenuto conto dell’influsso della gerarchia umana, del potere dell’uomo sull’uomo su questo processo. Quando alla metà del XVIII secolo la tecnologia, figlia diretta della Rivoluzione Scientifica moderna, iniziò ad essere applicata alla produzione materiale dell’esistenza i risultati, per la vita della maggioranza degli esseri umani, furono disastrosi. Invece di una liberazione dalla fatica, un maggior benessere e più tempo libero, la proprietà privata dei mezzi di produzione, garantita dal potere politico ad una minoranza dell’umanità , costrinse gli esseri umani provenienti da famiglie di ex contadini ed ex artigiani a lunghissime ore di estenuante fatica in cambio di un salario a volte nemmeno sufficiente alle necessità più elementari.
Se la cosa non fosse stata già abbastanza spaventosa, i padroni delle fabbriche utilizzarono a lungo una forza lavoro in larga parte composta da bambine e bambini (se non addirittura da infanti). La scusa era che le loro piccole mani erano più adatte a manovrare i nuovi macchinari – in realtà perché questo genere di piccoli esseri umani erano più facili da dominare e fargli accettare le micidiali condizioni di lavoro e di vita cui erano costretti. Ancora oggi, nei luoghi in cui la produzione industriale prende piede, troviamo situazioni simili, più o meno per gli stessi motivi.
La situazione cambiò molto lentamente, non certo grazie al buon cuore del potere politico ed economico, bensì in virtù dello sviluppo della lotta di classe che, a prezzo di enormi sofferenze e morti, cominciò a diminuire l’atroce pressione sulla forza lavoro. Sofferenze e morti che, spesso, toccavano proprio quei piccoli esseri umani: quando leggiamo la descrizione di eserciti che sparano, talvolta col cannone, sui cortei operai, dobbiamo immaginarci la mitraglia che si abbatte in buona misura anche su bambine e bambini.
Non a caso, perciò, tra le prime rivendicazioni sindacali del movimento operaio, insieme ad un minor numero di ore di lavoro ed un salario migliore, troviamo in primo piano la richiesta dell’abolizione del lavoro minorile, richiesta che come le prime venne ferocemente combattuta sia dai datori di lavoro sia dal potere politico. L’idea che il movimento operaio e socialista portò avanti era che l’età minorile e, successivamente, giovanile dovesse essere innanzitutto tenuta al riparo dalla brutalità capitalistica e dovesse, invece, essere dedicata ai processi educativi; una richiesta che trovò finalmente piena soddisfazione – almeno nei paesi di prima industrializzazione – sostanzialmente solo dopo la Seconda Guerra Mondiale e l’epopea della Resistenza antifascista.
Il modo di produzione capitalistico ha una notevole capacità di produzione mitopoietica – in parole più semplici, è bravissimo a raccontare favole su se stesso, favole che spesso riesce a far credere anche a chi pensa di esserne un oppositore. Tra le tante favole che propaganda, una delle più diffuse è che il capitalismo sarebbe “progressivo” mentre i suoi oppositori proporrebbero ipotesi sociali regressive.[2] Tra i tanti controesempi che si possono fare a questa favola che il modo di produzione capitalistico racconta su se stesso, la “Buona Scuola”, l’attuale normativa che regge la struttura educativa della repubblica del Belpaese, con i suoi effetti nefasti, è uno di questi.
Il carattere complessivamente reazionario della controriforma renziana – in stretta coerenza con le precedenti controriforme dell’educazione – fu avvertito fortemente, all’epoca, soprattutto dal mondo degli insegnanti, i quali diedero vita ad un enorme movimento, con una adesione imponente a scioperi ed iniziative di protesta che, per un momento, sembrarono riuscire a far fare marcia indietro al governo; l’intervento di Confindustria sul potere politico però alla fine la fece imporre.[3]
Uno degli aspetti peggiori di questa controriforma del settore educativo era la cosiddetta “Alternanza Scuola Lavoro”: gli studenti, per poter essere promossi, dovevano svolgere centinaia di ore di lavoro non pagato presso le aziende, ore tutte sottratte alla didattica. “Alternanza Scuola Lavoro” che poi ha cambiato nome in Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento (PCTO): si è un po’ diminuito il numero di ore – più per difficoltà organizzative che per altro – ma il principio è restato. La “Buona” scuola non è quella in cui gli esseri umani si formano, comprendono il mondo e le relazioni sociali: è invece quella che limita al minimo indispensabile questi aspetti, che vanno intesi come strettamente funzionali al futuro lavorativo di sfruttamento.
Insomma, una prestazione di lavoro obbligatoria – che ricorda da vicino le corvée medievali – che deve abituare i giovani esseri umani a non pretendere troppo dal loro futuro all’interno del mondo del lavoro e, inoltre, deve abituare alla ricattabilità (l’azienda se non gradisce l’operato di un alunno potrebbe rifiutargli l’attestato necessario all’accesso all’esame, anche se questo aspetto è stato successivamente moderato). Ora, di fronte all’aumento del numero delle morti sul lavoro che sta interessando i lavoratori dipendenti, la morte di Lorenzo Parelli, lo studente diciottenne morto il 21 gennaio in un giorno di PCTO per la caduta di una putrella d’acciaio, fa arrabbiare ma, purtroppo, non stupisce.
NOTE
[1] BACONE, Francesco, La Nuova Atlantide, traduzione italiana Milano, Rizzoli, 2009.
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FONTE E ARTICOLO COMPLETO: https://umanitanova.org/il-lavoro-salariato-contro-la-scuola-il-vecchio-che-avanza/
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