Tra il 1943 e il 1945, durante il periodo della Resistenza, operarono su solo italiano anche 4981 partigiani sovietici, in prevalenza azeri, georgiani e russi, con 425 caduti. Si tratta di una storia che, per ragioni politiche, nel dopoguerra è stata spesso sottaciuta. Eppure costoro rimasero qui fino alla fine delle ostilità, alcuni anche oltre, altri non ce la fecero.
Il tutto traeva le sue origini nell’operazione Barbarossa e nel suo fronte Caucasico, l’operazione Edelweiss.
Il fronte caucasico aveva Baku come obiettivo principale per diversi motivi. Innanzitutto un motivo “energetico”, in quanto la repubblica azera, dopo il crollo ucraino, era rimasta il solo fornitore di petrolio sovietico; in secondo luogo perché a Baku c’era una importante industria manifatturiera e siderurgica -lì venivano prodotti i famigerati Katiuscia, l’organo di Stalin-; e infine va considerato anche quel legame tra leggende esoteriche e potere che sembrava interessare le gerarchie del III Reich. Nel Caucaso infatti si staglia il Monte Elbrus, sacro agli ariani, ritenuto sede del Valhalla e legato alla leggenda di Prometeo. Gli alpinisti delle SS lo scalarono e vi piantarono sopra la bandiera con la svastica, benedetta secondo il rito dell’Ordine Nero.
Durante la poderosa avanzata dell’Asse in territorio sovietico, furono fatti molti prigionieri ed in particolare i georgiani e gli azeri, ritenuti ariani, a differenza degli slavi, non vennero trucidati o tutti imprigionati nei campi di concentramento ma utilizzati come reparti della Wehrmacht contro gli Alleati, dapprima sul fronte orientale ma, vedendo le continue diserzioni, furono spostati in occidente, Italia e Francia soprattutto, e impiegati oltre che come soldati, anche nella logistica. Molti disertarono comunque, unendosi ai partigiani e ai loro connazionali che l’ARMIR aveva fatto prigionieri durante la campagna di Russia. Di qui si spiega la grande presenza di azeri, georgiani e russi nel nord Italia. Erano soldati ben preparati, addestrati dall’Armata Rossa, sapevano maneggiare armi, muoversi in terreni accidentati e montuosi, conoscevano molto bene i tedeschi. Ebbero un ruolo di guida e supporto strategico e tattico verso molti giovani partigiani che di guerra non se ne intendevano assolutamente. La loro maggior presenza si attestava in Emilia, Romagna e nelle prealpi che vanno tra Brescia e Novara. Ricordiamo alcuni nomi, che hanno ricevuto commemorazioni ufficiali nel Bel Paese, per le loro imprese eroiche (su cui però non ci soffermeremo): Pore Mosulishvili, Sikor Tateladze, Filip Andreevic, Tamara Firsova, Mehdi Huseynzade, Javad Hakimli e Asad Gurbanov. E poi c’è Giorgi Varazashvili.
Giorgi (secondo la biografia tracciata da Larisa Khubuluri-Tatishvili in “ Il capitano Monti”) era nato il 12 maggio 1914 a Gurjaani in Cachezia, in una povera famiglia contadina. Ragazzo portato per l’arte, dopo le superiori venne ammesso all’Accademia d’Arte di Tbilisi, dove la sorella Sona lo aveva portato a vivere a sei anni. Il 30 giugno 1940 si laureò con lode all’Accademia di Belle arti con una scultura dal titolo “L’Atleta” , le cui foto vennero pubblicate sia sul giornale goergiano “Zaria Vostoka” sia sul foglio moscovita “Vechernaia Moscow”. Una lode che aveva ancor più valore, dato che aveva un dito indice amputato. Sempre nel 1940 si arruolò nell’Armata Rossa, 299 ° reggimento di artiglieria della 194a divisione fucilieri, impiegata nella linea di difesa centrale -fronte moscovita- . Qui il suo reparto venne catturato durante una battuta di ricognizione, probabilmente lungo il corso dell’Ugri, nel villaggio di Juchnov. In quel momento la scampò ma anche a lui, poi, toccò la sorte della cattura e della prigionia: venne infatti catturato una prima volta nel distretto di Bryansk e una seconda volta in quello di Smolensk. Riuscì a fuggire in entrambe le occasioni per darsi alla guerriglia, fino a che non venne fatto di nuovo prigioniero dai militari italiani, che lo tradussero poi nella penisola. Qui evase di nuovo e nel luglio del 1944, con un compagno, si unì a Santa Ottilia a nord dell’abitato di Tovena, dalle parti di Conegliano, prima al Battaglione Farnese e poi alla Brigata Piave. Secondo il libro di Rinaldo Dal Mas “Sui sentieri della memoria”, i due si qualificarono come maresciallo e come capitano. L’amico maresciallo disse di chiamarsi Peter, e venne descritto come alto e biondo, lui si presentò come Giorgi ed era era un uomo dalla pelle olivastra di media statura, colto (sapeva 5 lingue) e schivo. A Giorgi venne affibbiato il nome di battaglia “Monti” , tenendosi il grado di “Capitano” di artiglieria. Il Capitano Monti divenne uno dei comandanti della Brigata Piave, affiancando il Barba (Giovanni Morandin) e Giuseppe Castelli. Nell’autunno del 1944 i due georgiani insieme ad altri partigiani vennero ospitati in una cascina a Refrontolo di proprietà della famiglia Liessi, portati lì da Giovanni Liessi, collaboratore dei partigiani. Qui intraprese una relazione amorosa con Paola Liessi, sorella di Giovanni, da cui ebbe un figlio di nome Giorgio, che non vedrà mai. Paola ne dichiarò come cognome “Zambon”. Monti morì il 6 febbraio 1945 in un’azione partigiana. Dopo la presa, da parte dei partigiani, della guarnigione di Tarzo, ci fu la rappresaglia fascista guidata dalla MAS, che accerchiò via via i partigiani, chiudendoli tra le colline fra Tarzo e Vittorio Veneto. Nella località di Piai avvenne lo scontro finale in cui Monti e Barba si tolsero la vita facendosi saltare in aria con una bomba a mano. Castelli venne invece catturato. Il loro sacrificio permise però al resto del gruppo di mettersi in salvo. Secondo le testimonianze, le spoglie del Capitano Monti trovarono posto appena fuori dal cimitero di Tovena, in un punto contrassegnato da un cipresso.
Qui finisce una storia, quella di Giorgi Varazashvili e qui ne inizia un’altra, quella di Jakov Josifovic Dzugashvili, il figlio di Stalin. Magari è una suggestione ma Lucio Tarzariol nel libro del 2019 “Jakov figlio di Stalin partigiano in Italia” apre decisamente a questa possibilità. Per prima cosa c’è da sottolineare che la morte di Jakov, prigioniero a Sachsenhausen, che il padre non volle scambiare con Paulus, non ha una unica versione: i tedeschi dichiararono ufficialmente che morì il 14 aprile 1943 gettandosi contro la recinzione elettrificata del campo, cercando la fuga; nel 2001 il Telegraph sostenne la tesi del suicidio a seguito di insulti e angherie dei prigionieri polacchi e inglesi per il massacro di Katin; per il Dipartimento della Difesa USA Jakov fu fucilato dai tedeschi mentre tentava la fuga; infine per Medinskij in “Miti e contromiti. L’URSS nella seconda guerra mondiale” Jakov non fu catturato ma morì in battaglia a Smolensk, proprio uno dei luoghi dove fu fatto prigioniero anche Giorgi. La cattura del figlio di Stalin era sicuramente funzionale alla propaganda nazista ma il corpo non fu mai ritrovato. E adesso la domanda: e se Monti fosse Jakov, che prese l’identità di Giorgi?
Secondo Tarzariol, Jakov sarebbe fuggito da Sachsenhausen per poi arrivare, passando per la Serbia, in Italia settentrionale, come altri suoi connazionali. Gli indizi sono numerosi: le foto di famiglia ritrovate nel portafoglio mostrano somiglianze con i membri della famiglia del dittatore sovietico; il trafugamento del corpo del Monti, che, quando un 17enne Giorgio Zambon ne chiese la riesumazione e la nuova sepoltura al Camposanto, non venne trovato; le visite frequenti di delegazioni georgiane a Tovena; l’alto profilo culturale asserito da Giorgi e il grado di capitano di artiglieria (lo stesso ricoperto da Jakov). Inoltre Paola Liessi ricordava una spalla ferita ma nulla riguardo al dito mozzato; ricordava che la sorella non si chiamasse Sona ma Svetlana (nome della figlia che Stalin ebbe dalla seconda moglie); e sosteneva di aver ricevuto diverse offerte affinché il piccolo Giorgio studiasse in Unione Sovietica.
Gli ingredienti ci sono tutti: fughe frequenti dei prigionieri sovietici (soprattutto georgiani e azeri che avevano un trattamento un filo diverso); presenza di georgiani e azeri in Italia; connazionalità dei protagonisti; cattura di entrambi a Smolensk; dubbi sulla cattura di Jakov; cadaveri mai ritrovati; testimonianze raccolte nel volume del 2019.
Ora, la storia è piena di queste suggestioni più o meno fondate, come quella che vuole Edoardo II Plantageneto morto a Sant’Alberto di Butrio, nell’oltrepò pavese… ma quanto sarebbe bello se fosse vero? La fantasia (fino a che punto poi è fantasia) può correre.
Ad ogni modo a Giorgi fu assegnata da Saragat la Medaglia di Bronzo al Valor Militare nel 1971 e a lui, o a Jakov che sia ha poca importanza, e a tutti gli altri sovietici va il nostro ringraziamento per aver combattuto al nostro fianco in una Liberazione, che poi li ha visti dimenticati per lungo tempo.
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