La richiesta della Russia è quella di un “testo scritto concreto”. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha ribadito che “sulle questioni principali per cui erano stati avviati i negoziati è stato registrato disaccordo e non le risposte specifiche alle questioni specifiche sollevate da Mosca”. La Federazione Russa vuole continuare a negoziare, ripete la presidenza. Ma secondo i russi ora sono gli Stati Uniti a dover fare la loro parte per raggiungere un accordo. Un tira e molla che non sembra avere ancora un vincitore, né a Washington né a Mosca, continuando un pericoloso gioco diplomatico che rischia di minare la stabilità dell’Europa orientale e dei rapporti tra Russia e Occidente.
Il problema non è soltanto legato al presente. Certo, l’escalation degli ultimi mesi con lo schieramento delle truppe russe al confine ucraino non ha giovato alle relazioni tra Mosca e Washington. Ma tutto questo affonda le sue radici almeno a trent’anni fa: cioè dalla caduta dell’Unione Sovietica. E le richieste di garanzia di Vladimir Putin si baserebbe su presunte promesse scambiate tra Mosca e Washington mentre cadeva il Muro di Berlino e il mondo assisteva allo sgretolamento dell’Urss.
La promessa del 1990
La tesi di cui si parla in questi giorni – e su cui punta la diplomazia moscovita – è che la Russia avrebbe ricevuto a suo tempo rassicurazioni che il blocco atlantico non si sarebbe inserito nello spazio post-sovietico dopo la riunificazione della Germania. Secondo Mosca, l’allora segretario di Stato americano, James Baker, e l’ultimo leader dell’Urss, Michail Gorbiaciov, stipularono nel 1990 un accordo che avrebbe incluso, quantomeno implicitamente, la garanzia sulla mancata espansione atlantica oltre la Germania orientale. Come spiegato dalla professoressa Marie Elise Sarotte, il Cremlino ha sempre insistito sul fatto che il Trattato 2+4 del 12 settembre del 1990 “consentiva all’alleanza di operare solo in Germania dell’est, non a est della Germania”.
E secondo l’ex ministro degli Esteri russo, Evgheni Primakov, i patti prevedevano che “nessun Paese del Patto di Varsavia fosse ammesso nella Nato se la Germania fosse stata unificata”. Una tesi che gli Stati Uniti respingono da quando sono stati siglati i trattati, citando non solo l’assenza di accordi espliciti in tal senso, ma soprattutto ricordando che quell’interpretazione farebbe riferimento a un impegno al limite “momentaneo” – e comunque mai dichiarato – della Nato a non espandersi militarmente nella Germania orientale. Impegno che in ogni caso non prevedeva alcun divieto, tantomeno esplicito, sull’adesione di altri Paesi all’Alleanza Atlantica.
Anzi, come spiegato da Marco Valsania su Il Sole 24 Ore, quando Baker e Gorbaciov diedero poi forma agli accordi, il testo prevedeva “nove rassicurazioni per Mosca senza alcun blocco a nuove adesioni alla Nato”, con la postilla che il trattato al limite “vietava truppe straniere nella ex Germania Est ma non truppe tedesche parte della Nato a partire dal 1994” e che nell’accordo su Kiev si prevedeva il riconoscimento dell’indipendenza in cambio dell’abbandono delle testate nucleari sovietiche presenti nel territorio della repubblica ucraina.
Non solo. In base a Sarotte, anche il trattato fondativo delle relazioni fra Nato e Russia del 1997 (Nrfa) non ha cristallizzato alcuna richiesta avanzata dall’allora presidente russo Boris Eltsin. E questo confermerebbe di fatto l’assenza di clausole – o addirittura veti, come riferivano dal Cremlino – su un eventuale allargamento a oriente da parte dell’alleanza militare a guida statunitense. Non esistono insomma prove né atti che testimonierebbero questo impegno.
Il mancato approccio “morbido” degli Usa
Questo chiaramente non significa che gli Stati Uniti, e con essi la Nato, non avrebbero potuto scegliere altre strade. La stessa professoressa di Harvard ricorda il lavoro dei consiglieri tedeschi che a quel tempo suggerirono alla Casa Bianca e al dipartimento di Stato americano un approccio più morbido nei confronti della Russia. Tuttavia rimangono solo trattative, negoziati prima degli accordi, che Mosca ha continuato a considerare vincolanti ma che avevano, come spiega l’analista, al limite una “sostanza politica e psicologica”. Un elemento che non è certo da sottovalutare per una potenza che si sente tradizionalmente accerchiata dai nemici. Però, l’idea del “not one inch eastwards”, “non un centimetro più a est”, sarebbe impossibile da considerare valida sia perché sarebbe come riportare le lancette della storia indietro di trent’anni, sia perché si tradirebbe proprio quei trattati firmati anche dagli allora leader del Cremlino.
Certo, come dicevamo, rimane il nodo politico. Esclusa la questione legale, che si può ritenere superata dall’interpretazione letterale degli accordi, rimane infatti il problema di come trovare una de-escalation che appare sempre più complicata. L’Europa chiede, sia attraverso gli organi dell’Ue che attraverso i ministri degli Stati membri, di essere coinvolta in quello che avviene nella parte orientale del Vecchio Continente. Per Bruxelles e per Parigi – capitale “di turno” dell’Unione – l’obiettivo è evitare una nuova Yalta in cui Russia e Stati Uniti decidono i destini di una regione europea. D’altro canto la richiesta russa in questo momento appare inamovibile e, come ricordato anche dall’ambasciatore russo presso l’Ocse, Alexander Lukasehvic, Mosca ritiene che la strategia della Nato “aumenta in maniera inaccettabile i rischi per la sicurezza della Russia”. Nel frattempo, si attende la risposta di Washington. Alcuni segmenti della politica Usa chiedono un irrigidimento fino anche a sanzioni nei confronti dello stesso Putin; alcuni gruppi repubblicani puntano a stringere il cappio intorno al Nord Stream 2. Di fatto però una soluzione va trovata prima che la tensione porti alla rottura dei rapporti.
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