La crisi finanziaria globale del 2007-2008 è diventata immediatamente un campo di battaglia sulle diverse interpretazioni da dare al fenomeno e sui provvedimenti da adottare per rispondere al “rischio sistemico” che il collasso del mercato dei mutui subprime e dei prodotti finanziari da esso derivati stavano provocando. La crisi finanziaria si fece quasi da subito politica, e a breve sarebbe diventata una crisi sociale devastante, paragonabile per portata solo alla Grande Depressione.
L’economista Joseph E. Stiglitz fu lapidario: la crisi era “la fine del neoliberalismo”. A sedere sul banco degli imputati erano le dottrine economiche che dagli anni Settanta in poi avevano orientato la politica statunitense e in gradi diversi, dopo il crollo dell’URSS, quella globale.
In effetti la finanza immobiliare americana era un esempio eccellente del presunto successo del neoliberismo, tanto a livello economico quanto a livello degli stili di vita. Da un lato la progressiva deregolamentazione e le innovazioni come la cartolarizzazione avevano aperto la strada ad un mercato dall’enorme possibilità di profitto: non solo le proprietà immobiliari statunitensi rappresentano il 20% dell’economia globale, ma apparivano anche come un asset sicuro, tanto da trasformarsi in un segno distintivo della società americana (“ownership society” come ebbe a definirla Bush Jr). Dall’altro lato dopo il Volcker Shock del 1979 che aveva inaugurato il progressivo smaterializzarsi della base manifatturiera degli USA e quindi anche del potere contrattuale dei sindacati, sganciando definitivamente l’aumento dei salari da quello dei prezzi, la facilitazione dell’accesso al credito per la working class aveva sostituito il sistema newdealistico con quello del debito, inducendo una mutazione quasi antropologica.
La crisi del 2007 - 2008 dunque, come spiegano Leo Panitch e Sam Gindin “è stata innescata nel settore apparentemente banale del credito ipotecario, dove la finanza mediava l'accesso della classe operaia alle abitazioni, e poi si è rapidamente diffusa nel mondo più rarefatto del prestito interbancario e dei mercati delle carte commerciali aziendali. È stato perché la finanza statunitense era diventata così parte integrante del funzionamento del capitalismo globale del ventunesimo secolo che l'impatto finale di questa crisi sull'economia internazionale è stato così profondo.”
La crisi del paradigma neoliberista era così evidente che alcuni dei suoi epigoni ammisero in pubblico le loro difficoltà. Alan Greespan, altro ex Presidente della FED, ammise: “Sì, ho trovato un difetto. Non so quanto sia significativo o permanente. Ma sono stato molto angosciato da questo fatto.” Richard Posner dichiarò: “Quello che abbiamo imparato dalla depressione ha dimostrato che abbiamo bisogno di un governo più attivo e intelligente per evitare che il nostro modello di economia capitalista esca fuori dai binari” rinnegando sostanzialmente le dottrine neoclassiche.
Questa evidente crisi d’identità degli intellettuali e degli economisti neoliberali si accompagnava con lo stato di confusione che stava sconvolgendo il quadro politico statunitense (tanto in campo democratico quanto in quello repubblicano).
George W Bush si avviava alla fine del suo mandato presidenziale varando diversi salvataggi delle banche d’affari con il supporto dei democratici al Congresso e una crescente fronda all’interno del partito repubblicano. Hillary Clinton, il candidato dell’establishment democratico era stata battuta alle primarie dal giovane senatore afroamericano Barack Obama.
Sembrava evidente che la crisi del neoliberismo avrebbe imposto un ripensamento del libero mercato. E se effettivamente da un lato generò reazioni fortemente critiche nei confronti del sistema di sviluppo statunitense (se non apertamente anticapitalistiche) come il movimento di Occupy Wall Street, dall’altro lato divenne un’opportunità di rilancio per una nuova narrazione conservatrice orientata al libero mercato.
Mutuando la domanda che si pone Sébastien Caré: “Com'è possibile che i conservatori del libero mercato si siano ritrovati rinvigoriti in un momento in cui la realtà economica sembrava contraddire così profondamente le loro idee?”
Per provare a rispondere a questa domanda lo studioso dà conto del dibattito interno al pensiero neoliberale, sottolineando sostanzialmente la presenza di due schieramenti che la crisi del 2007 - 2008 contribuirà progressivamente a contrapporre. Da un lato vi sono secondo Caré i seguaci della scuola di Chicago, eredi del pensiero di Friedman e di altri influenti economisti e veri e propri fautori della “controrivoluzione” degli anni Settanta, dall’altro invece la cosiddetta scuola Austro - americana, che vede come capostipite Hayek e che ebbe a sua volta ampia diffusione a seguito della crisi inflazionistica. Le due scuole, sebbene condividessero la necessità di restaurare il libero mercato a fronte delle deviazioni keynesiane, divergevano su diversi punti. In particolare la scuola Austriaca criticava l’impostazione eccessivamente positivista di quella di Chicago e rifiutava completamente le politiche monetariste che riteneva “come un modo per lo Stato di arricchire se stesso ed i suoi clienti a spese di altri cittadini”.
Ma mentre gli eredi della Chicago School da attori protagonisti della politica economica statunitense non erano stati in grado di prevedere la crisi del 2007 - 2008, alcuni esponenti della corrente austriaca avevano avvertito sul rischio del crollo ed avevano individuato proprio nella bolla del mercato immobiliare il principale fattore di instabilità. Frank Shostak osservò nel marzo 2003 che i prezzi delle case erano cresciuti pericolosamente a causa dei bassi tassi di interesse e che una bolla era sul punto di esplodere. Mantenendo questa paura nel giugno 2004, Mark Thornton scrisse che l'aumento dei prezzi delle case era “troppo bello per essere vero” e che “la Federal Reserve e la famiglia Mac-Mae (Freddie, Fannie, Sallie, ecc.) Hanno cospirato per creare una bolla immobiliare negli Stati Uniti”. Con qualche grado di premonizione, concluse che: “Dato l'incoraggiamento del governo a pratiche di prestito lassiste, i prezzi delle case potrebbe crollare, i fallimenti aumenterebbero e le società finanziarie, compresele società ipotecarie sponsorizzate dal governo potrebbero richiedere un altro salvataggio dei contribuenti.”
L’ipotesi di fondo che portava gli economisti della scuola austriaca a sostenere questa previsione era che il governo, introducendo, sostenendo ed ampliando il ruolo delle GSE (Gouvernement Sponsored Enterprise) avesse creato un’aberrazione nell’equilibrio del libero mercato che inevitabilmente avrebbe generato una crisi. Le GSE erano istituzioni fondate per creare un mercato secondario per gli istituti di credito disposti a concedere i nuovi tipi di mutui ipotecari garantiti dal governo federale tramite la Federal Housing Authority (FHA) all’epoca del New Deal. In sostanza le GSE funzionavano da fattore calmierante del mercato dei mutui rendendolo accessibile alla working class dotata di un salario stabile. Nonostante le GSE fossero considerate praticamente infallibili poiché garantite in sostanza dal governo federale, l’instabilità dei tassi di interesse degli anni Settanta le mise a dura prova ed il Volker Shock del 1979 rischiò di portarne alcune sull’orlo del fallimento. Di fronte al mutato quadro economico di quegli anni le GSE, lavorando con l’aiuto delle banche d’investimento, introdussero un’innovazione: la cartolarizzazione. I mutui venivano venduti direttamente aggregati in pool agli investitori, invece che rimanere nei bilanci della banca per poi essere finanziati attraverso l’emissione di obbligazioni. In pratica gli investitori erano direttamente possessori dei mutui e partecipavano agli utili degli stessi, invece di possedere azioni della banca: in tal modo i costi di finanziamento dei mutui venivano direttamente determinati dalla contrattazione di mercato.
A cavallo tra gli anni ‘90 ed il 2000 poi le GSE, spinte dai democratici, iniziarono a concedere prestiti a settori sociali che precedentemente erano esclusi dai circuiti del credito ufficiali, come i neri e i latini. Ciò avveniva in un momento in cui i processi di integrazione economica delle comunità sembravano vivere una parabola ascendente. Si stava consolidando una middle class non bianca. Si riteneva - date le tendenze demografiche – che questo processo avrebbe aperto nuovi mercati e possibilità. Agli inizi degli anni 2000 una parte della popolazione non bianca aveva iniziato ad acquistare case nei suburbs e negli exurbs, tradizionalmente bianchi, facendo affidamento sull'accesso alle linee di credito che le banche stavano finalmente aprendo (non solo le GSE, ma anche molte banche d’investimento).
La scuola Austriaca vedeva come fumo negli occhi questo residuo del New Deal che “falsava” il mercato. Se sicuramente le GSE ed il sistema di credito sostenuto dai democratici rappresentavano in un certo grado un'innovazione che avrebbe aperto le porte alle banche di investimento è anche vero che esse non trattavano i mutui “subprime”, cioè quelli di bassa qualità, che avrebbero avuto un ruolo così centrale nell’esplosione della crisi. Come afferma Adam Tooze “questi prestiti tossici erano il prodotto di un nuovo sistema di finanza ipotecaria guidato da istituti di credito privati che era entrato pienamente in vigore nei primi anni Duemila.”
La richiesta di molti dei più eminenti pensatori della corrente austriaca prima della crisi era tutto sommato quella di liberalizzare le GSE, cioè di privarle del supporto del governo per farle concorrere nel libero mercato alle stesse condizioni delle banche d’investimento, non certo di farla finita con la speculazione sui mutui.
Inoltre puntare lo sguardo unicamente sulle GSE, o anche solo sul mercato dei mutui nel suo complesso, non permette di comprendere i motivi per cui l’esplosione di una bolla finanziaria, se pure di una certa portata, si sia trasformata in una crisi globale generalizzata. I nuovi strumenti finanziari di collateralizzazione, la bassissima capitalizzazione delle banche d’investimento, l’interconnessione finanziaria determinata dalla globalizzazione, la compiacenza degli organi di controllo sono solo alcuni dei fattori che “con condizioni di libero mercato” hanno portato alla diffusione del contagio.
Nonostante ciò, senza dubbio, la capacità d’anticipazione della scuola Austriaca le fornì un certo vantaggio strategico nei confronti degli ex compagni di strada neoliberali. Un vantaggio che si trasformò presto in scontro politico, tanto all’interno del campo repubblicano, quanto più in generale nell’agone delle politiche economiche da mettere in pratica per rispondere alla crisi. Se infatti gli eredi di Friedman sostenevano che “il sistema doveva essere salvato ripristinando il credito e ricapitalizzando le banche”, per quelli di Hayek la crisi era solo la conseguenza dell’interventismo del governo e per risolverla sarebbe stato necessario lasciare che fosse il mercato ad autoregolarsi. Questa battaglia non rimarrà unicamente nel campo delle idee, ma si materializzerà per le strade con la nascita del Tea Party (tra i cui fondatori vi è Ron Paul, uno dei sostenitori della scuola Austriaca) ibridandosi con altre istanze e con il sostegno di alcuni importanti magnati dell’industria e delle telecomunicazioni statunitensi. Questo fenomeno sarà oggetto del prossimo paragrafo.
Prima di concludere però è necessario spendere alcune parole ancora sulle interpretazioni della crisi del 2007-2008. Spesso si tende a collocare l’origine della crisi esclusivamente nel settore finanziario. Questa ipotesi, sostenuta in particolar modo dagli economisti neo-keynesiani, afferma che ad avere un ruolo centrale nelle premesse del crollo sia stata la progressiva deregulation che ha messo fine alla separazione del settore bancario da quello finanziario (con l’abrogazione del 1999 del Glass-Steagall Act). Viceversa alcune ipotesi marxiste ortodosse ripropongono la teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto che avrebbe portato ad una progressiva finanziarizzazione per risolvere i problemi di realizzazione del capitale. Dunque l’origine del fenomeno sarebbe da individuare nell’economia “reale”. Entrambe le posizioni paiono però sembrare riduzionistiche. Più convincente pare la lettura che propone Raffaele Sciortino: “La generazione di capitale fittizio, altra faccia del capitale monetario che anticipa l’investimento produttivo, è inestricabilmente intrecciata all’espansione del capitale, anche se, presto o tardi, deve scontrarsi con la capacità/possibilità di trovare una base reale adeguata. [...] la scaturigine reale del capitale fittizio sta, in ultima istanza, non nella follia della finanza ma proprio nella produzione immediata, cioè nel normale meccanismo della valorizzazione attraverso lo sfruttamento che, a causa della dinamica intrinsecamente capitalistica degli incrementi di produttività via innovazione tecno-scientifica, tende in continuazione a svalutare il capitale fisso mentre ne incrementa il rapporto rispetto al lavoro vivo.” Insomma più che essere “reale” o “fittizia”, l’origine della crisi andrebbe ricercata nella circolarità dei fenomeni che coivolgono queste due sfere. Questo aspetto è tutt’altro che secondario nella ricostruzione che si sta facendo, poiché lo scontro tra “economia reale” e finanza sarà un tema di contesa importante per il revival conservatore.
La coalizione conservatrice si misura con la Crisi. Il Tea Party Movement
La crisi del 2007 - 2008 si è immediatamente trasformata in crisi politica. Una crisi politica che ha riguardato sia il sistema istituzionale in termini generali, sia i singoli partiti e movimenti politici preesistenti. Se da un lato si è manifestata una sostanziale scollatura tra gli establishment di entrambi i grandi partiti e le basi elettorali, dall’altro lato si è assistito ad una polarizzazione ed ad un progressivo crescente attivismo dentro e fuori gli ambiti elettorali. Pareva che fosse l’inizio di un grande scongelamento dove le composizioni sociali classiche di riferimento dei diversi attori politici si rimettevano in movimento approdando a nuove istanze e bisogni in parte pregressi, ma di cui la crisi aveva rappresentato un amplificatore, in parte generati dallo stesso collasso economico.
La crisi politica si abbattè con significativa violenza in particolare in campo conservatore, tanto che alcuni studiosi arrivarono a chiedersi se la vittoria alle elezioni del 2008 di Barack Obama fosse di fatto “la fine della Conservative Era”.
Il quadro in effetti era in ebollizione, le politiche messe in campo da George W Bush avevano generato non pochi contrasti all’interno della coalizione conservatrice. Molti criticavano l’eccessiva spesa pubblica, che non si era mai incrementata tanto in cinque anni fin dalle riforme della Great Society degli anni Sessanta. Le guerre in Iraq ed Afghanistan avevano inoltre provocato la disaffezione delle frange conservatrici più isolazioniste. Infine, come già accennato, la scelta di salvare il sistema bancario e finanziario attraverso l’intervento pubblico con il supporto bipartisan dei democratici e seguendo le mortificate indicazioni degli economisti della scuola di Chicago, aveva avuto come conseguenza una fronda dentro il partito e un moto di indignazione tra la base della coalizione più ferocemente orientata al libero mercato. Il “compassionate conservatorism” di Bush con le sue concessioni alla Cristian Right ed ai neoconservatori era considerato superato, l’economia tornava ad essere il terreno di battaglia principale.
La coalizione conservatrice dunque era in fermento e le sue diverse anime sembravano sul punto di abbandonare la strada comune. Di fatto l’etereogeneità del movimento non è una novità, come suggerisce Sebastien Carrè “Il conservatorismo è analogo a una torta a quattro strati. Il primo strato è la destra cristiana o evangelica [...]. Questa costituency si occupa principalmente di questioni morali e familiari viste attraverso una lente biblica. La seconda include i tradizionalisti [...], che basano principalmente le loro ideologie su un leale anticomunismo ed un robusto individualismo. [...] I terzi sono i neoconservatori [...], che si oppongono al percepito relativismo culturale della sinistra nello spiegare il loro allontanamento da questi ideali. Accettano in gran parte l'eredità del New Deal mentre sostengono la missione degli Stati Uniti per stabilire un nuovo ordine internazionale. Infine nel quarto strato ci sono i libertariani”. Queste quattro anime a seconda delle fasi hanno avuto una maggiore o minore influenza all’interno del movimento e del Partito Repubblicano, ma una divaricazione così netta era inedita.
A salvare i destini in subbuglio della coalizione conservatrice fu molto probabilmente la nascita del movimento del Tea Party. Il nome è un’evocazione del Boston Tea Party del 1773, evento centrale della rivoluzione americana, ed è anche un acronimo che sta per “Taxed Enough Already”. Il compito del Tea Party secondo i suoi fondatori era quello di riportare gli Stati Uniti al loro spirito originario: “Come movimento”, spiega TheTeaParty.net, “il Tea Party riguarda [...] la riforma di tutti i partiti politici e del governo in modo che i principi fondamentali dei nostri padri fondatori diventino, ancora una volta, il fondamento su cui poggia l'America.” La data con cui convenzionalmente si indica la nascita del movimento è il 15 aprile 2009 in occasione del termine per la presentazione delle dichiarazioni dei redditi federale. L'ispirazione per la creazione della coalizione è venuta da un notiziario mattutino della CNBC Squawk Box del 19 febbraio in cui l'editore EDITOR NON E’ EDITORE Rick Santelli, in onda dal Chicago Mercantile Exchange, ha espresso ciò che è stato successivamente ribattezzato “lo sfogo sentito in tutto il mondo”, pronunciando un discorso contro le proposte di spesa pubblica del presidente Barack Obama per evitare il collasso del sistema bancario e suggerendo di scaricare i derivati nel lago Michigan (qui il riferimento al Boston Tea Party).
NOTE:
1 Ben Bernanke, presidente della FED, in un incotro a porte chiuse la definì “the worst financial crisis in global history, including the Great Depression”.
2 JOSEPH STIGLITZ, “The end of neoliberalism and the rebirth of the story”, Social Europe 2019
3 ADAM TOOZE “Lo Schianto”, pag. 51
4 MARIO DEL PERO, “Era Obama. Dalla speranza del cambiamento all’elezione di Trump”, Milano 2017, pag 37
5 Per Volcker Shock si intende la politica di innalzamento dei tassi d’interesse che Paul Volcker, allora presidente della FED, mise in campo al fine di chiudere definitivamente la stagione dell’inflazione. L’operazione riuscì stabilizzando i prezzi, ma ebbe come conseguenza la crescita del tasso di disoccupazione sopra il 10%.
6 ADAM TOOZE, “Lo Schianto”, pag. 52
7 MAURIZIO LAZZARATO, “La fabbrica dell’uomo indebitato”, 2011
8 LEO PANITCH E SAM GINDIN, “The Making of Global Capitalism”, pag. 311
9 MARK MCNAUGHT, “Reflection on Conservative Politics in the United Kingdom and the United States. Still Soul Mates?”, Lanham 2012, pag. 150
10 ADAM TOOZE, “Lo Schianto”, pag. 55
11 Ibidem, pag. 56
12 MARK MCNAUGHT, “Reflection on Conservative Politics”, pag. 153
13 Esponente dei Repubblicani alla Camera dei rappresentanti fino al 2013 e candidato alle primarie presidenziali del 2007, promotore di posizioni libertarie e non interventiste
14 RAFFAELE SCIORTINO, “I dieci anni che sconvolsero il mondo”, Trieste 2019, pag. 34
15 Ibidem, pag. 37
16 FEDERICO CARTELLI,”Rokkan e Lipset. I cleavages per capire il presente e il futuro”
17 JOEL D. ABERBACH E GILLIAN PEELE, Crisis of Conservatism?: The Republican Party, the Conservative Movement, and American Politics After Bush, Oxford 2011
18 MARK MCNAUGHT, “Reflection on Conservative Politics” pag. 154
19 RICHARD HOLTZMAN, “George W. Bush’s Rhetoric of Compassionate Conservatism and Its Value as a Tool of Presidential Politics”, Smithfield 2010
20 MARK MCNAUGHT, “Reflection on Conservative Politics”, Lanham 2012, pag. 144
21 ROGER CHAPMAN, “Social Scientists Explain the Tea Party Movement”, New York 2012, pag. 51
22 Ibidem, pag. 52
23 I fratelli Koch, a capo della la più grande azienda privata negli Stati Uniti (con un fatturato di 115 miliardi di dollari nel 2019), sono stati fin dagli anni ‘80 tra i più prosperi finanziatori di think thank e movimenti libertariani, conservatori e negazionisti del cambiamento climatico.
24 MARK MCNAUGHT, “Reflection on Conservative Politics”, pag. 158
25 ROGER CHAPMAN, “Social Scientists Explain the Tea Party Movement”, New York 2012, pag. 217
26 Ibidem, pag. 131
27 DEL PERO, “Era Obama”, pg 75-88
28 Ibidem, pg 123
29 ROGER CHAPMAN, “Social Scientists Explain the Tea Party Movement”, pag. 212 - 215
30 ADIA HARVEY WINGFIELD, “Colour Blindness is Counterproductive”, The Atlantic 2015
31 ROGER CHAPMAN, “Social Scientists Explain the Tea Party Movement”, pag. 179
33 ROGER CHAPMAN, “Social Scientists Explain the Tea Party Movement”, pag. 218
34 CHATHAM HOUSE, “The Lasting Effects of the Financial Crisis Have Yet to Be Felt”, 2018
35 ANGUS DEATON, “The Financial Crisis and the Well-Being of Americans”, 2012
36 NBER, “The Effect of the Economic Crisis on American Households”, 2010
37 ADAM TOOZE, “Lo Schianto”, pag. 176
38 WHARTON UNIVERSITY OF PENNSYLVANIA, “How the Great Recession Changed American Workers”, 2018
39 Vedere anche “Sanità, gig economy: negli Usa cresce il lavoro, non gli stipendi”, articolo di Marco Valsania del 2019 per il Sole24Ore
40 NBER, “The Effect of the Economic Crisis on American Households”, 2010
41 ADAM TOOZE, “Lo Schianto”, pag. 176
42 PHIL NEEL, “Hinterland. America’s New Landscape of Class Conflict”, Londra 2018, pag. 107
43 WHARTON UNIVERSITY OF PENNSYLVANIA, “How the Great Recession Changed American Workers”, 2018
44 PHIL NEEL, “Hinterland”, pag. 99
45 AMY GUTMAN, “Failing Economy, Failing Health”, Harvard Public Health 2014
46 SARAH DEWEERDT, “Tracing the US opioid crisis to its roots”, Nature 2019 e CDC, “Understanding the Epidemic”
FONTE E ARTICOLO COMPLETO: https://www.infoaut.org/conflitti-globali/ad-un-anno-dall-assalto-di-capitol-hill-pt-3-lo-spartiacque-della-crisi-del-2008
TITOLO ORIGINALE: "Ad un anno dall'assalto di Capitol Hill: lo spartiacque della crisi del 2008"
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