Russia e Occidente, intendendo con quest’ultimo termine il Vecchio Continente e gli Stati Uniti, non sono sempre stati gli avversari che si scambiano colpi da Guerra Fredda come sono oggi. C’è stato un tempo in cui Mosca guardava a ovest con benevolenza, tanto da considerare di poter entrare nell’Alleanza Atlantica, che di rimando auspicava di poter allargare il suo braccio a est per “normalizzare” quello stato/continente che è la Russia e che ha rappresentato storicamente il suo acerrimo nemico dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
La dissoluzione dell’Unione Sovietica ha portato il mondo ad avere un’unica grande potenza: gli Stati Uniti. L’Occidente era risultato vincitore della Guerra Fredda e la Nato nei primi anni ’90 del secolo scorso stava attraversando un profondo riassetto ideologico/strutturale al punto che qualcuno, internamente, si stava chiedendo se avesse ancora senso continuarne l’esistenza. La fine della contrapposizione in blocchi aveva infatti aperto la questione dell’ambiguità sulla natura dell’Alleanza, oscillante tra quella di ordine militare e quella di sicurezza collettiva, che poi fu presa in carico da Bruxelles.
La Nato quindi è trasfigurata, in quel periodo, sia per sopravvivere – in quanto i benefici della sua sopravvivenza erano superiori ai costi del suo mantenimento – sia per affrontare nuove minacce non più “statuali”: asimmetriche, cyber, terroristiche ecc. L’Alleanza ha mutato pelle e non ha continuato a essere un organismo puramente difensivo, bensì uno capace di azioni proattive proprio nel quadro della dottrina di mantenimento della sicurezza internazionale.
Nel 1994 subisce una riorganizzazione strutturale con la nascita della Combined Joined Task Force per poter effettuare missioni fuori area ad hoc con tutti gli strumenti militari combinati necessari; i comandi vengono riformati, ma soprattutto diventa esecutiva la Partnership For Peace (Pfp), il primo degli strumenti burocratici per permetterne l’allargamento con l’ingresso di quegli Stati che volessero farne parte.
A giugno di quel fatidico anno la Russia accettò di firmare il documento quadro della Pfp, considerata come “l’anticamera” del formale ingresso nella Nato. Da quando era stato proposto il concetto di Partnership For Peace, nell’ottobre 1993, il governo russo aveva cercato di sondare le intenzioni dell’Alleanza, chiarendo le proprie ambizioni e adeguando la propria politica estera ai processi politici interni. Quel processo funzionò, e allora veramente si riteneva che l’ingresso di Mosca nella Nato fosse solo questione di tempo.
I rapporti tra Russia e Occidente, però, non sono rimasti costanti dal 1994, e riflettono quelli tra Mosca e Washington, essendo quest’ultima – fondamentalmente – quella che gestisce e determina la politica della Nato in qualità di alleato più forte. Storicamente possiamo dividerli in tre fasi: la prima, durata dal 1992 sino al 2003, caratterizzata da una cooperazione asimmetrica, la seconda, dal 2004 al 2013, definibile come “di competizione pragmatica” e una terza, dal 2014 a oggi, di scontro.
Sappiamo bene le motivazioni di questo scontro che perdura ancora oggi (Crimea), pertanto ci interessa focalizzarci sulla prima fase che è quella in cui Russia e Occidente sono state più vicine che mai.
Allora era un Paese molto diverso, che faticava a uscire dalla terribile crisi generata dalla fine del sistema socialista, in cui l’irruzione del capitalismo aveva causato una polarizzazione della società mai vista con gli oligarchi che sempre più diventano terminali ultimi del potere, anche politico.
Boris Eltisn ed Evgenij Primakov – suo ministro degli Esteri – pensano che avvicinarsi all’Occidente e alla Nato potesse in qualche modo essere utile a stabilizzare il Paese e esautorare gli oligarchi, nonostante proprio Primakov sia sempre stato sostenitore di una visione globale multipolare e abbia contestato il primato Usa nel mondo, ovvero, sostanzialmente, l’eccezionalismo occidentale anche dal punto di vista morale. Per lui il mondo deve essere multipolare, cioè reggersi su una collaborazione “condominiale” dello scenario internazionale: riflessioni che Primakov ha solo perfezionato essendo presenti nella filosofia politica russa da almeno due secoli, se pur in modo differente.
La prima rottura con l’Occidente, in pieno clima Pfp, si ha nel 1999, quando la Nato attacca la Serbia: l’aereo di Primakov, che doveva partecipare a un vertice a Washington, quella notte, in pieno Atlantico, fa inversione di rotta e torna a Mosca. Un segnale fortissimo che genera “fastidio” alla Casa Bianca e che segna un primo stop all’“occidentalismo” russo. Il grande allargamento della Nato a Est di quegli anni serve solo a confermare i timori russi già evidenziati dai bombardamenti dell’Alleanza su Belgrado.
Quando Vladimir Putin sale al Cremlino nel 2000, in un periodo particolarmente favorevole caratterizzato da prezzi del petrolio alti, nonostante riesca a realizzare in parte la contestazione del mondo unipolare di Primakov, si continua a guardare a ovest, ma questa volta pretendendo di essere trattati alla pari dagli Stati Uniti: sono gli anni conosciuti, in Italia, come quelli caratterizzati dallo “spirito di Pratica di Mare”. Ancora quindi si torna a parlare della possibilità , per la Russia, di entrare nella Nato, ma Washington rifiuta un equo partenariato con Mosca causando una seconda nuova chiusura.
Le tensioni e i disaccordi crescono, e si entra in quel periodo che è stato definito di “competizione pragmatica” ovvero di un pragmatismo nella ricerca e difesa degli interessi nazionali russi. Si arriva al 2007 quando da Monaco, alla Conferenza Internazionale sulla Sicurezza, il presidente Putin critica la Nato e gli Stati Uniti per le intrusioni nella sfera di influenza russa. Da lì a poco ci sarebbe stata la guerra in Ossezia del Sud/Georgia (agosto 2008) e una nuova crisi tra Russia e Nato.
Con l’arrivo di Barack Obama gli Stati Uniti cercano quello che è stato definito “il grande reset” nei rapporti con Mosca: al Cremlino viene anche offerto di entrare nello “scudo missilistico” che si stava erigendo dopo l’uscita unilaterale dal Trattato Abm (Anti Ballistic Missile) degli Usa voluto dal presidente George W. Bush. Mosca però ormai è su un altro binario, anche proprio per via delle continue intrusioni nel suo estero vicino, per il continuo trattamento di subalternità e per la postura statunitense sullo “scudo missilistico” che minaccia direttamente la capacità di deterrenza dell’arsenale nucleare russo – e da qui Mosca comincia gli studi per i suoi veicoli di rientro ipersonici, definiti Hgv (Hypersonic Glide Vehicle).
La rottura definitiva, lo abbiamo già detto, avviene nel 2014 grazie alla questione della Crimea/Donbass e oggi tra la Russia e la Nato sembra che vigano ancora i meccanismi della Guerra Fredda: provocazioni, sospetti, reciproche accuse, contrasto indiretto in altri fronti.
Mosca però, nonostante la politica di protivostoyanie zapadu (contrasto all’occidente), spinta anche dal desiderio di non isolarsi che la ha portata nelle braccia del drago cinese, si sente ancora occidentale come si sentiva ai tempi degli Zar. La Russia è ancora un Paese di cultura europea/occidentale, come lo è sempre stato sebbene la sua politica estera non lo sia per via della sua stessa geografia. Ancora nel 2012, quindi poco prima dell’attuale rottura, il presidente Putin ebbe a dire che la Russia è parte organica della civilizzazione europea e che i cittadini russi si sentono europei, quindi Mosca non ha mai del tutto cessato di vedere l’Europa come un vettore di modernizzazione (come pensava Pietro il Grande).
L’attuale partenariato con la Cina non deve trarre in inganno: si tratta di una necessità dettata dalle vigenti contingenze, non si tratta né di un’alleanza né di una profonda, intima, comunanza di valori: alla base c’è solo la comune visione della politica estera che rifiuta il ruolo egemonico statunitense e “occidentale” e la rivendicazione del diritto di essere portatori di valori propri, se pur differenti. Culturalmente, sebbene i due Paesi condividano un lungo confine (spesso conteso e oggi molto delicato), non hanno nulla in comune: perfino la parentesi marxista è stata declinata in modo diverso, con divergenze talmente profonde da portare a un vero e proprio gelo (con qualche calda cannonata) che, oltretutto, portò la Cina ad essere avvicinata dagli Stati Uniti di Richard Nixon in chiave antisovietica.
Ecco perché, fondamentalmente, Russia e Occidente – in particolare Russia ed Europa –, nonostante le attuali divergenze e tensioni hanno sempre la possibilità , in futuro, di tornare a stringersi la mano.
FONTE: https://it.insideover.com/politica/quando-la-russia-voleva-entrare-nella-nato.html
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