La storia senza “teoria” è cieca; la “teoria” senza storia è astrusa, indimostrata, priva di verifiche empiriche. Per quanto riguarda la modernizzazione, gli storici preferiscono la pura narrazione limitando l’analisi concettuale, ricavandone un racconto neutro che non considera sufficientemente l’evoluzione dei processi; filosofi, sociologi, politologi ricavano invece una visione abbastanza irrealistica dei processi della modernizzazione, e entrambe le categorie molto spesso non riescono a discostarsi dalla visione eurocentrica o occidentalista della Storia moderna, considerando l’Europa e l’Europa “fuori dall’Europa” come lo “specchio del mondo”. L’avvio della globalizzazione ha dimostrato l’incompletezza degli schemi storiografici europei applicati a contesti differenti e la necessità di evolvere paradigmi maggiormente inclusivi.
Sorge la necessità di processare la modernità, andando oltre l’idea originaria basata sui presupposti citati in precedenza che fondava l’applicazione del “moderno” solo su base nazionale e teorizzava la globalizzazione come una somma di processi locali diretti in una direzione comune sulla base dell’imitazione del modello della “locomotiva” dei paesi avanzati. Il fatto che le élite africane ed asiatiche siano state a lungo formate nelle metropoli europee, Londra e Parigi in primis, testimonia quanto questa idea sia stata percepita anche al di fuori dei confini occidentali. Tuttavia, questo non può essere reputato un racconto credibile: la modernità ha rappresentato un processo unitario mondiale partito dall’Europa occidentale e dagli Stati Uniti per poi espandersi gradualmente sino a coinvolgere sostanzialmente tutto il pianeta, diventando una condizione generalizzata per tutta l’umanità. La modernità si è sviluppata attraverso un processo violento, incoerente e contrastato, al di là di quanto affermi una certa narrazione di parte: ad esempio, l’Europa è stata molto abile a rimuovere i ricordi scomodi connessi al colonialismo e si è dimostrata decisamente indulgente con sé stessa. I milioni di morti dell’Olocausto nazista, ad esempio, ricevono una considerazione e un ricordo degno della gravità dell’evento, mentre al contrario i milioni di morti causati del colonialismo in America del Sud o in Congo sono oggigiorno taciuti. La colonizzazione ha rappresentato un fenomeno significativo della modernità intesa come “conflitto”.
Possiamo distinguere tre ondate di modernizzazione: la prima, di stampo essenzialmente “classica”, liberale, interessò gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, i Paesi Bassi e la Francia sulla scia di quattro importanti rivoluzioni, da quella olandese contro il dominio spagnolo a quella francese del 1789.
Il Congresso di Vienna, autore di una restaurazione politica, non poté fermare l’ondata di modernizzazione economica e legislativa: nessun avvenimento storico passa mai senza lasciare conseguenze dietro di sé, nessuna restaurazione può mai essere completa. Il seme di modernità continuò a germinare, contribuendo a generare la seconda ondata verso la metà del XIX secolo, coinvolgente Germania, Italia, Russia e Giappone.
La Russia abolì la servitù della gleba nel 1861, sulla scia della sconfitta patita nella guerra di Crimea, avviando col tempo un processo di industrializzazione concentrata nella zona di San Pietroburgo, e subì in seguito un grande impatto catalizzatore al processo di modernizzatore attraverso ulteriori sconfitte militari, tra cui quella col Giappone e quella nella Grande Guerra, causa della deflagrazione delle rivoluzioni interne.
La modernizzazione tedesca, al contrario, dopo il fallimento della rivoluzione liberale del 1848, fu il frutto dei successi militari della Prussia contro Danimarca, Austria e Francia tra il 1864 e il 1871, dopo i quali si costituì il Secondo Reich, la Germania imperiale. La crescita economica e industriale tedesca fu il “matrimonio tra la segale e l’acciaio”, e lo sviluppo delle grandi industrie tedesche fu catalizzato essenzialmente dall’espansione della potenza e delle ambizioni militari della Germania, guidate e orchestrate dal governo centrale.
In Italia, la modernizzazione e l’unità furono il prodotto dell’incremento degli interessi della grande borghesia produttiva del Nord della penisola, che diede substrato politico alla consolidata unità culturale italiana. I sette congressi degli scienziati italiani della prima metà dell’Ottocento fondarono effettivamente l’idea di “Italia” prima del Risorgimento. L’alleanza tra la rivoluzione democratico-liberale e le aspirazioni della dinastia più italiana tra quelle regnanti nella penisola a metà del XIX secolo, casa Savoia, creò la piattaforma per il primo tentativo di unificazione, andato incontro a un fallimento nel 1848; in seguito, i Savoia assunsero la guida politica del processo unificatore italiano. In Italia, la modernità non fu dunque il frutto rivoluzionario di una società già “matura”, né il frutto esclusivo di successi militari: fu la politica a creare la modernizzazione.
Sempre nel primo tempo della seconda ondata si colloca il caso giapponese: quando gli USA forzarono l’Impero del Sol Levante ad aprire i porti ai commerci internazionali, la dinastia Meji impose una vera e propria rivoluzione dall’alto, avviando la modernizzazione del paese per il cui compimento fu fondamentale lo sviluppo di una moderna ed efficiente marina militare.
La seconda fase della seconda ondata fu molto più traumatica, e prese il via dopo la Rivoluzione Russa del 1917. I quattro paesi, per motivazioni altamente diverse connesse al primo conflitto mondiale, uscirono completamente prostrati e totalmente spaesati dalla Grande Guerra. La caratteristica conflittuale della modernità si palesò in maniera straordinaria negli anni precedenti la Grande Guerra, dato che tale periodo modificò la struttura sociale dei paesi e portò alla nascita di dispute internazionali, la più importante delle quali fu quella per la supremazia mondiale navale e coloniale tra Germania e Regno Unito. Si palesò inoltre la tendenza tipica dei paesi avanzati a considerare la modernità come un fenomeno centrato su loro stessi, e la volontà di spingere il resto del mondo a uno sviluppo moderno subalterno. Le tendenze autoritarie già presenti in Italia, Giappone e Germania si consolidarono sulla scia dell’insoddisfazione per le “vittorie mutilate” o per il revanscismo contro i vincitori: la seconda fase della seconda ondata fu caratterizzata dalla “modernizzazione autoritaria”, incentrata su un ruolo egemonico dello Stato, sulla compressione dei diritti delle classi lavoratrici e sulla nascita dei totalitarismi. Si può intendere dall’analisi del primo dopoguerra il carattere differente della modernità nei diversi contesti statali.
L’idea dello sviluppo ineguale-combinato è fondamentale per comprendere tanto la modernità quanto la globalizzazione: Trotskij teorizzò la sua applicazione alla Russia sovietica, alla luce del principio del “salto delle fasi”, dell’historia amat nepotum, dello sviluppo cumulativo delle conoscenze. Lo sviluppo è ineguale per la differenza dei retroterra culturali, sociali e materiali tra i diversi paesi, cosa che porta alla necessità di modificare i ritmi dello sviluppo imponendo una modernizzazione tardiva ed accelerata. La necessità di recuperare i secoli di ritardo portò i 4 paesi della seconda ondata a processi rapidi e traumatici: ad esempio, un’urbanizzazione accelerata sradicò milioni di persone dalle campagne, creando al contempo larghe zone di povertà e disuguaglianza nelle città. Al contempo, Italia a parte nei 4 paesi l’industria pesante e quella degli armamenti fu largamente preferita alla produzione di beni di consumo, all’industria leggera: ciò comportò un aumento dell’irrazionalità, sotto forma di opere pubbliche prodotte in fretta e in maniera non ottimale e la produzione di una “mentalità dell’accelerazione” che portava i singoli ben oltre il senso di stupore legato alla possibilità di percepire il mutamento nell’arco della propria vita.
Il mutamento graduale creò un’idea di Storia, il mutamento accelerato fu alla base di un cambio di paradigma politico. Il mito del Novecento fu “Prometeo liberato”, l’idea del trionfo della volontà, del volontarismo oltre ogni sacrificio e rinuncia che tanto si ritrovò nei regimi totalitari di destra e sinistra, in totale contrasto con le idee sviluppatesi nella prima ondata di modernizzazione. Tipico della modernizzazione tardiva fu la convivenza tra elementi di estrema modernità, elementi altamente tradizionali e forme di compressione delle libertà individuali: tale modello di modernizzazione uscì sconfitto nei paesi fascisti con la seconda guerra mondiale, dopo la quale Germania, Italia e Giappone si inserirono nel filone di modernizzazione liberale, mantenendo alcune particolarità locali (in Italia, ad esempio, persistettero lo spirito corporativo, la mentalità nepotistica). La Russia sovietica, vincitrice del secondo conflitto mondiale, ebbe un’evoluzione diversa prima dell’implosione interna del 1991.
La terza ondata di modernizzazione si incentrò sulla globalizzazione neoliberista. Diversi paesi, come parti del mondo islamico, Cina e India, hanno conosciuto negli ultimi decenni un processo di modernizzazione tardiva e accelerata ancora più accentuata di quella vissuta da Russia, Italia, Germania, Giappone. La modernizzazione non si sviluppò dunque come un “processo di distillazione” delle sue componenti, ma fu altamente più traumatico: più accelerato e tardivo è lo sviluppo, maggiori sono gli squilibri creati dall’incedere della modernizzazione. In Cina, ad esempio, le regioni interne hanno subito pallidissimi riflessi dei mutamenti economici degli ultimi decenni, e il governo di Pechino sta tentando di aumentare la fascia d’influenza dei nuovi processi in atto attraverso grandi opere pubbliche; in India si parla addirittura di “sei diversi fusi orari storici” e sussistono zone dove le condizioni di vita non sono mutate dal Trecento accanto a città pienamente modernizzate. Lo sviluppo, per essere accelerato ulteriormente, si concentra territorialmente.
Modernità e globalizzazione sono incomprensibili se non si considera il fenomeno della complessità: tipico della complessità è il prodursi di effetti controintuitivi e imprevedibili per il mescolarsi e l’incrocio di fenomeni non omogenei tra loro. Oggigiorno, serve elaborare una teoria della presa di decisioni “in condizione di ignoranza”. Una necessità che la crisi pandemica e la sua sovrapposizione con l’emergenza ambientale in quella che può diventare una “Grande Tempesta” globale ha reso ancora più impellente.
Commenti
Posta un commento
Partecipa alla discussione