La crisi bielorussa, iniziata nello scorso agosto con le proteste seguite alla rielezione di Aleksandr Lukashenko, al potere dal 1994, è tornata al centro dell’attenzione internazionale nelle scorse settimane con l’atterraggio forzato del volo Ryanair Atene-Vilnius, su cui si trovava il blogger e attivista Roman Petrasevich, già redattore del canale telegram Nexta, a Minsk. La scelta delle autorità bielorusse, giustificata con un allarme bomba e una mail ricevuta da Hamas, smentita dal movimento islamico, ha suscitato l’indignazione e le proteste dei paesi dell’Unione europea, e si è aperta una nuova stagione di sanzioni contro la Bielorussia.
Ormai sembra che per Lukashenko le opinioni e i pareri della comunità internazionale contino ben poco, nel suo tentativo di mantenere il controllo del paese e di eradicare, con ogni mezzo possibile, qualsiasi tipo di opposizione. In questo senso il presidente bielorusso è riuscito a sfruttare l’assenza di una direzione autorevole e unitaria del movimento di protesta emerso tra l’agosto e il settembre 2020, causata anche dalla neutralizzazione di quelle figure che avrebbero potuto giocare un ruolo dirimente. L’arresto del banchiere Viktor Babaryko, uomo vicino agli ambienti politico-finanziari di Mosca, per evitare la sua partecipazione alle elezioni, a cui è seguita la detenzione di Maria Kolesnikova, già coordinatrice del comitato elettorale per Babaryko e distintasi nelle giornate d’agosto come una delle principali figure dell’opposizione a Lukashenko, hanno avuto come conseguenza la fine dell’orientamento pro-russo in seno all’opposizione. Svetlana Tikhanovskaya, candidata alle elezioni in sostituzione del marito Sergey Tikhanovsky, attivista anticorruzione anche lui arrestato, è in esilio e la sua figura più di una valenza simbolica per i media occidentali non ha, non essendo riuscita a costruire un reale coordinamento di forze delle opposizioni, né tantomeno ponendosi questo fine come proprio obiettivo.
In questo momento il principale obiettivo di Lukashenko è evitare il ripetersi degli eventi dell’anno scorso, senza lesinare mezzi e opzioni. E vi è anche un altro aspetto, la capacità del presidente bielorusso di utilizzare a proprio favore le contraddizioni presenti nelle relazioni complicate tra Mosca, l’Unione europea e gli Stati Uniti. Minsk in questo contesto riesce a trovare legittimazione e sostegno da parte del Cremlino giustificando le proprie azioni come risposte dovute alle ingerenze occidentali, timore dominante nella percezione di Putin. Di fronte a questo argomento, l’ostilità di un settore importante dell’establishment russo verso Lukashenko, motivata dalle generose elargizioni di fondi di Mosca a condizioni di favore e dalla mancanza di controllo e di garanzie su come verranno usati, non riesce a fare breccia, perché passa in secondo piano rispetto all’immagine della Bielorussia come avamposto necessario per difendere la Russia. A confermare questa interpretazione vi sono i risultati del summit Putin – Lukashenko, dove il presidente bielorusso ha ottenuto la seconda tranche di finanziamenti promessi da Mosca lo scorso inverno, senza concedere nulla in cambio al Cremlino. Minsk infatti continua a non riconoscere la Crimea come parte della Federazione Russa, a non fare passi in avanti nel complesso processo di integrazione fra i due stati nella cornice della Sojuz gosudarstv (Unione di stati), è riuscita a bloccare ogni discorso sull’introduzione di una valuta unica. Aspetti non di poco conto, che lasciano riflettere su come una battuta in voga negli ultimi giorni a Mosca, “l’annessione della Russia alla Bielorussia”, non sia poi così tanto una boutade.
Resta da vedere se vi possano essere, da parte del Cremlino, dei possibili tentativi di favorire un’evoluzione diversa nella politica interna bielorussa, dato che i tentativi di giungere a una maggiore integrazione tra i due paesi sono in fase di stallo. Resta anche da definire che ruolo vuole avere Mosca, se assecondare ogni mossa di Lukashenko, anche quando si tratta di decisioni pericolose come l’atterraggio forzato di un aereo civile, o provare a ristabilire la propria immagine di “fratello maggiore”, e se questa scelta sarà condizionata dall’incontro tra Putin e Biden a Ginevra il 16 giugno.
*Giovanni Savino (1984), storico e ricercatore, insegna Storia contemporanea a Mosca presso l’università RANEPA. Si occupa di nazioni e nazionalismi in Russia e in Europa orientale.
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