Il primo atto formale della nuova direttrice del Dis, l’ambasciatrice Elisabetta Belloni nominata da Mario Draghi poche settimane fa, è stato quello di mandare anticipatamente in pensione Marco Mancini, l’alto ufficiale dei servizi italiani interessato dalla polemica riguardante il suo incontro con Matteo Renzi rivelato dalla trasmissione Report.
Il 60enne Mancini, di cui all’epoca del governo Conte II si parlava come possibile vicedirettore del Dis, è stato prepensionato dal Dis nel quadro di un preciso assunto che ha ispirato la scelta da parte di Draghi di Belloni e del prefetto Franco Gabrielli, scelto come autorità delegata alla sicurezza della Repubblica, al vertice dei servizi: l’obiettivo è rimettere ordine, sottrarre i servizi dal tourbillon mediatico, restituire allo Stato la sua centralità e alla fedeltà repubblicana il suo ruolo a scapito di quella di cordata e partito che ha caratterizzato la governance dell’intelligence negli ultimi anni, trovando il suo apice nel governo Conte II.
Certamente molti lati della vicenda narrata da Report non convincono o non sono chiari: in primo luogo è lecito dubitare della natura “accidentale” della ripresa del colloquio tra Renzi e un uomo dal volto ben poco mediatico come Mancini in un autogrill, azione che ricorda molto una classica operazione coperta, e porta a interrogarsi, ad esempio, se effettivamente si possa supporre che un ex premier o un alto funzionario del Dis siano effettivamente pedinati e spiati e, se sì, da chi; in secondo luogo, la presenza di una lacuna legislativa sui rapporti tra politica e esponenti dei servizi pone una questione relativa alla riforma della Legge 124 del 2007 sull’intelligence che merita di essere approfondita. Ma d’altro canto è indubbio sostenere la tesi secondo cui l’intelligence italiana, dopo i casi degli ultimi anni (dalla controinchiesta sul Russiagate ai giochi di spie di Giuseppe Conte negli ultimi mesi di governo) necessiti di tornare a una fase di tranquilla operatività e rischia di ricevere un danno dall’eccessiva esposizione mediatica di suoi alti funzionari.
L’intelligence, in questa nuova fase scandita dal lavoro certosino di Belloni e Gabrielli, dovrà essere come la moglie di Cesare: al di sopra di ogni sospetto. Il coinvolgimento di Mancini in casi del passato, da quello Abu Omar alla liberazione di Giuliana Sgrena, in tal senso c’entra solo indirettamente e contribuisce esclusivamente a aumentare la visibilità della vicenda, ma nell’economia della decisione va pesata soprattutto la volontà di Belloni e Gabrielli, interpreti delle linee su cui punta a indirizzare l’intelligence il nuovo premier, di evitare nuove querelle scandalistiche e mediatiche. Rafforzando una discontinuità col passato che va di pari passo con quanto seguito in altri campi come quello delle partecipate: Draghi ha nel suo progetto l’obiettivo di rimettere lo Stato e le istituzioni, con le loro prassi, i loro equilibri, le loro strategie, al centro. Il messaggio dovrà giungere con chiarezza anche alle dirigenze dei servizi, l’Aisi e l’Aise: non ci sarà più spazio per conflitti di corrente o guerre di fazioni nel prossimo futuro.
Mancini, in quest’ottica, è sia vittima delle circostanze sacrificabile con (relativa) comodità, dato che non essendo asceso a nessuna carica dirigenziale non impone andando in pensione una nuova corsa alle nomine, sia figura utilizzata come pretesto per accelerare sulla road map della normalizzazione. Non a caso in vista che il vuoto legislativo sia colmato Palazzo Chigi, per mezzo dell’ufficio di Gabrielli, ha emesso una precisa direttiva sugli incontri tra ufficiali dei servizi e esponenti politici: sarà prevista una specifica autorizzazione da parte dei vertici delle agenzie, che dovranno essere preventivamente informati di un eventuale incontro con un politico in attività. “In questi casi conta l’autodisciplina delle singole persone, sia dei politici che degli agenti in servizio. Una norma può comunque essere utile a stabilire criteri e procedure di fondo”, ha commentato il politico e magistrato Luciano Violante, ex presidente della Camera, parlando con Formiche.
Il caso Mancini ha dunque avuto, per eterogenesi dei fini, l’effetto di aprire il dibattito sulle più corrette modalità di governance dell’intelligence. In primo luogo per evitare fughe di notizie sull’attività del comparto. “Parliamo nei briefing — va ripetendo Elisabetta Belloni nelle riunioni coi vertici delle agenzie — quando si è fuori meglio stare zitti”. “Non sarà un caso se i Servizi sono segreti”, chiosa spesso l’ambasciatrice con un’ironica tautologia. In secondo luogo, l’emersione di vuoti normativi nella Legge 124/2007 sul rapporto tra politica e servizi e la parallela apertura del caso Copasir stanno rafforzando il dibattito sulla riforma del quadro normativo in maniera tale da includere gli avanzamenti in termini di minacce e opportunità per i servizi nei riferimenti legislativi. Umberto Saccone, ex funzionario dei servizi ed ex direttore della security di Eni, conversando con Inside Over ha ad esempio proposto di aprire alla divisione del comparto non più per confine geografico ma per funzione, dividendo la human intelligence dalla signal intelligence. E da più campi si propone di aumentare l’attenzione alle nuove tecnologie, all’intelligence economica, alla collaborazione tra apparati pubblici e mondo privato per pensare in termini di sistema-Paese. Tutte questioni fondamentali e decisamente calde. Che hanno ricevuto un’accelerazione in termini dialettici anche per la svolta della governance dei servizi che il caso Mancini ha contribuito a consolidare.
Commenti
Posta un commento
Partecipa alla discussione