Delle quattro poltrone apicali che il recente giro di nomine pubbliche ha portato sotto i riflettori, una sola è stata mantenuta all’insegna della continuità. Sostituiti i vertici di Ferrovie dello Stato con l’ascesa di Nicoletta Giadrossi alla presidenza e Luigi Ferraris come amministratore delegato e chiamato il fedelissimo Dario Scannapieco al vertice di Cassa Depositi e Prestiti, Mario Draghi ha però scelto la continuità sul fronte della presidenza della banca pubblica di Via Goito. L’ex amministratore delegato di Cdp, Giovanni Gorno Tempini, è stato infatti confermato per un secondo mandato da presidente. Un’attestazione di stima che conferma, inoltre, la prassi che vede il presidente di Cdp scelto dall’esecutivo su indicazione delle fondazioni bancarie legate alle casse di risparmio dei vari territori italiani e che nel complesso costituiscono l’azionista di minoranza del gruppo.
Oltre sessanta fondazioni bancarie private, giuridicamente costituite come enti no-profit, possiedono complessivamente il 18,4% del capitale del gruppo Cdp. Si va dalle 30mila azioni della piccola Cassa di Risparmio di Bra (0,01% del capitale) al 2,57% delle quote che è in capo a cinque fondazioni: Cariplo, Casse di Risparmio di Trieste, Fondazione Mps, Fondazione Cr Verona Vicenza Belluno e Ancona e Compagnia di San Paolo. Tali quote sono per le varie fondazioni che partecipano in Cdp un volano strategico, in quanto consentono all’utile del gruppo di distribuirsi sui vari territori, favorendo la realizzazione di progetti con finalità di sviluppo o sociali, dalle campagne per l’housing sociale agli investimenti sostenibili, creando un circolo virtuoso tra la presenza della mano pubblica nello Stato, la mobilitazione del risparmio postale e il sostegno ai territori.
Ebbene, la connessione con Cdp è una delle principali garanzie che sostiene decine di istituti siti in tutta Italia, nelle grandi città come nelle province più periferiche, ma non pare sufficiente per garantire una certezza di un futuro di navigazione serena a buona parte delle piccole banche nazionali. Afflitte, come i grandi istituti, dai problemi di ridotta operatività, carenza di margini di espansione e rischi di sostenibilità patrimoniale che, per la scala ridotta di operatività, rischiano di far riverberare in forma massiccia anche perdite minime.
Il governo guidato da Mario Draghi e le istituzioni regolatorie sanno quanto delicata sia la questione. Al momento della nascita del nuovo esecutivo Marco Bindelli, vice presidente e consigliere delegato ai rapporti con il Credito cooperativo e le Capogruppo del banco marchigiano-credito cooperativo, ha scritto su StartMag di ritenere che nella “dottrina Draghi” contro la crisi del Covid-19 riecheggiano molte questioni proprie del settore delle banche territoriali, tra i maggiormente sofferenti negli ultimi anni: dall’ampliamento delle maglie per il circolo di denaro nell’economia all’attenzione per il principio di sussidiarietà che valorizza le realtà locali. La scommessa del governo è che da un lato il ritorno all’ordinaria amministrazione nell’economia alzi l’asticella e aiuti le piccole e medie banche a tornare a una tranquilla operatività e, dall’altro, si trasmetta anche ai piccoli istituti l’incentivo a un crescente consolidamento tra banche che favorisca il rafforzamento della patrimonializzazione, la copertura dai rischi sistemici (default di clienti, crediti deteriorati e via dicendo) e alleanze tra istituti facenti capo a territori o settori diversi.
Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nelle sue considerazioni finali ha sottolineato che le banche territoriali “presentano debolezze strutturali; in taluni casi esse sono dovute a un governo societario non adeguato e alla debolezza dei controlli interni, in altri alla ridotta capacità di accedere ai mercati dei capitali, di innovare e di sfruttare economie di scala e di diversificazione”. Una serie di problemi già emersi con forza tra il 2015 e il 2017, durante l’ondata che portò alla crisi delle banche venete e del centro Italia sull’onda dei crediti deteriorati. Via Nazionale, d’intesa con il governo, ritiene che le banche del territorio debbano sfruttare diverse situazioni venutesi a creare: situazioni contingenti, come l’accumulazione patrimoniale legata al blocco dei dividendi e alla riduzione dei crediti deteriorati che ora può essere trasmessa alle imprese, e situazioni strutturali, come l’intervento di una fase di corposa spesa pubblica che culminerà nel Piano nazionale di ripresa e resilienza che in Cdp avrà un perno fondamentale. Questo per favorire la stipula di accordi commerciali con altri operatori, la creazione di consorzi e ulteriori operazioni di aggregazione paragonabili al “risiko” in atto tra le grandi banche.
Il Messaggero fa l’esempio di “Consulia di Milano”, istituto che “pur essendo ben gestita e in salute, ha voluto anticipare i tempi, allacciando un negoziato in esclusiva con Finint che si conclude il 9 giugno, salvo eventuali proroghe”, per aumentare la sua capitalizzazione con l’ingresso di un socio. Mentre in Valtellina la Banca Popolare di Sondrio si trasformerà in Spa entro la fine di quest’anno, dopo che una sentenza del Consiglio di Stato del 31 maggio ha confermato la legittimità della riforma delle banche popolari, e avrà al suo interno una partecipazione del 9% di un big come Unipol-Sai. Sono esempi di un mondo in movimento che, complice la strategica importanza di cui lo investirà il Recovery Fund, non vuole farsi trovare impreparato e si prepara a ritornare ad essere la cinghia di trasmissione tra imprese, cittadini e istituzioni che è sempre stato. Perché nella pandemia, come in ogni crisi, c’è sempre un’opportunità per ripartire con forza su nuovi basi con maggiore solidità.
FONTE: https://it.insideover.com/economia/la-sfida-delle-banche-nellera-di-draghi-e-del-recovery.html
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