Herat per anni ha rappresentato il settore di nostra competenza. Dal 2003 in poi la presenza italiana qui è stata significativa e non solo per il tricolore issato nella base militare. La Nato, nell’ambito della missione Isaf, aveva assegnato all’Italia il controllo della regione attorno ad Herat e dal nostro Paese negli anni sono arrivati migliaia di soldati, così come di giornalisti, fotografi e rappresentanti. Questo pezzo d’Italia nel cuore dell’Afghanistan adesso non c’è più. All’interno della base di Herat il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ha presenziato a una cerimonia al termine della quale il tricolore è stato ammainato. Fine della missione, chiusura definitiva di una pagina di storia durata quasi vent’anni.
Ammainata la bandiera italiana
“Non vogliamo che l’Afghanistan torni ad essere un luogo sicuro per i terroristi. Vogliamo continuare a rafforzare questo Paese dando anche continuità all’addestramento delle forze di sicurezza afghane per non disperdere i risultati ottenuti in questi 20 anni”: è questa la frase principale pronunciata durante la cerimonia dal ministro Guerini. Nobili i suoi intendimenti, ma la realtà è ben diversa. Non stiamo lasciando l’Afghanistan perché finalmente il Paese dopo più di due decadi ha trovato la via per la pacificazione. Al contrario, stiamo andando via perché altro non si può fare. Un po’ come quando il medico impotente davanti a una malattia, decide di dimettere un paziente. Il territorio afghano non è affatto controllato dalle forze della difesa locale, le quali anzi non hanno né i mezzi e né le competenze, e forse ancor meno la volontà, per presidiare soprattutto le lande più remote. Gli ultimi presidenti afghani, Karzai prima e Ghani poi, non a caso sono stati soprannominati con l’appellativo di “sindaci di Kabul”. Oltre la capitale e alcune grandi città, i loro governi non hanno mai realmente avuto presa.
Perseverare però non avrebbe senso. Non sono serviti quasi vent’anni di guerra e di costante presenza occidentale per ridare forma a un Afghanistan perennemente frammentato, non c’è ragione di credere che rimanere qui avrebbe potuto migliorare la situazione. E così ad Herat la bandiera tricolore è stata ammainata. Alla cerimonia hanno preso parte, oltre che il ministro della Difesa, anche il capo di stato maggiore Enzo Vecciarelli, così come il comandante del COI, generale Luciano Portolano, il capo della missione ‘Resolute Support‘, il generale statunitense Austin Scott Miller, e il generale Beniamino Vergori, responsabile del comando di Herat. Diversi giornalisti non hanno potuto assistere per intero all’ultimo saluto dei soldati italiani all’Afghanistan. Al Boeing 767 dell’aeronautica con loro a bordo è stato negato l’attraversamento dello spazio aereo degli Emirati Arabi Uniti. Il governo di Abu Dhabi, è la voce maggiormente presa in considerazione in ambito diplomatico, si è forse voluto vendicare dello stop alla vendita di armi al Paese arabo decretato dal nostro precedente governo a gennaio. Un giallo che ha aggiunto ulteriore colore a una mattinata dal sapore agrodolce. I giornalisti per diverse ore sono dovuti rimanere fermi all’interno dell’aeroporto saudita di Dammam, poi hanno ripreso il viaggio ma con una rotta diversa per raggiugere Herat.
Da qui, terminata la cerimonia, 500 soldati italiani hanno preso la via di casa. Resteranno ancora soltanto alcuni militari impegnati a smontare le ultime strutture. Ma la missione è ufficialmente terminata. L’Italia è rientrata dall’Afghanistan, la sua presenza nel Paese appartiene oramai alla storia.
Cosa lasciamo in Afghanistan
In primo luogo in Afghanistan lasciamo il ricordo di 53 soldati caduti. Alcuni sono stati uccisi da attentati nella provincia di Herat, altri invece a Kabul: “Sono lacrime che non dimenticheremo”, ha dichiarato il capo di stato maggiore Vecciarelli. I militari rientrati a casa, alle loro spalle hanno lasciato un Paese ancora lontano dalla normalità. Tutto era partito il 30 dicembre 2001. Dagli attentati delle Torri Gemelle erano passati pochi mesi, a Kabul in quel momento i miliziani dell’Alleanza del Nord, con il supporto Usa, avevano già strappato il potere ai talebani, rei di aver dato ospitalità ad Osama Bin Laden, l’artefice degli attacchi a New York e Washington. Gli italiani erano chiamati a dar manforte alle nuove autorità afghane, il tutto nell’ambito della missione Nato denominata Isaf. L’operazione era stata autorizzata dal consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e in un primo momento tutto sembrava procedere per il meglio. Ma si trattava di un’illusione. Dal 2004 in poi i talebani hanno iniziato a perpetuare continui attacchi contro la coalizione internazionale e le fragili forze locali. Nonostante una parvenza di normalità data dalle elezioni dei presidenti e dei nuovi parlamenti, l’Afghanistan è sempre rimasto fuori controllo.
Il 3 ottobre 2004 il nostro primo caduto: si chiamava Giovanni Bruno ed è rimasto vittima di un incidente nelle tortuose strade afghane. L’Italia all’epoca si era già stanziata ad Herat, qui infatti nel 2003 la Nato ha assegnato il controllo di questo territorio alle nostre forze. Erano cresciute le responsabilità e, assieme ad esse, ad aumentare era anche il conto delle vittime. Il 5 maggio 2006 un attentato ha ucciso altri due soldati, il 17 settembre 2009 l’episodio di sangue più grave: a Kabul, a seguito dell’esplosione di un ordigno, a morire tra i nostri militari sono stati in sei. Nel 2015 la missione ha cambiato nome, passando da Isaf a Resolute Support. L’obiettivo era adesso quello di addestrare l’esercito locale. Donald Trump, nella campagna elettorale che lo ha portato alla Casa Bianca nel 2016, aveva promesso l’addio all’Afghanistan. Nel settembre scorso è arrivato l’accordo con i talebani, che oramai controllano buona parte delle aree rurali, il successore Joe Biden ha fissato per l’11 settembre la fine definitiva della missione Usa. La nostra è terminata con qualche mese di anticipo.
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