Nel luglio del 1992 Yitzhak Rabin divenne premier in Israele, il primo ad essere nato nel Paese: era lui l’eroe di guerra che, in qualità di capo di Stato maggiore, polverizzò i progetti tattici egiziani durante la Guerra dei sei giorni. Da quel momento, la vita e le missioni di Rabin si intrecciarono saldamente ai destini della vicenda arabo-israeliana. Prima dell’estate del 1992, infatti, Rabin visse molteplici vite: da militare ad ambasciatore negli Stati Uniti, ministro, perfino uno scandalo finanziario che lo costrinse a stare nell’ombra. Un’eterna rivalità con Shimon Peres, che poi sarebbe stato fondamentale nella svolta verso l’Olp. Ma all’alba di quel nuovo decennio post Guerra fredda, Rabin scelse di abbandonare il pugno di ferro trasformandosi da “Mister sicurezza” a interlocutore, seppur cauto, dell’Olp. Sul tavolo, la sempiterna opzione della nascita di un soggetto autonomo palestinese, osteggiata dal Likud. Una complessa situazione acuita dalle tensioni esacerbatesi dopo lo scoppio dell’intifada a cui il governo conservatore di un altro Yitzahak (Shamir) rispose col pugno di ferro nel 1990.
La svolta del 1993-94
Mentre la diplomazia seguiva i suoi canali, sottotraccia, i laburisti salirono al potere e Rabin impresse una svolta decisiva verso i negoziati. Alla fine dell’estate del 1993 una “dichiarazione di principi” raggiungeva un compromesso storico fra le due parti: autogoverno palestinese per la striscia di Gaza e Gerico e autonomia (seppur inferiore) per i territori occupati. Il 13 settembre di quell’anno a Oslo, Shimon Peres e Mahmoud Abbas firmavano a Washington l’elaborato realizzato con la mediazione norvegese. Un anno dopo, per imporre l’imprimatur internazionale a quello sforzo, il leader palestinese Yasser Arafat, Rabin e il ministro degli esteri israeliano Shimon Peres ricevettero il premio Nobel per la Pace. Quell’anno non era iniziato sotto i migliori auspici: a cominciare dal massacro di Hebron del 25 febbraio, in cui un ebreo israeliano uccise 29 palestinesi musulmani in una moschea. Nello stesso anno, altri attentati, rivendicati soprattutto da Hamas, colpirono Tel Aviv, segnando 22 morti.
Nel resto del mondo, il 1994 sembrava imprimere significati nuovi al sistema internazionale, di segno, però, opposto: la guerra nei Balcani, il conflitto somalo, il genocidio ruandese ma anche la cementificazione dell’Unità europea e Mandela presidente del Sudafrica. Un nuovo ordine che guardava al centro del Medio Oriente come a un termometro del mondo che sarebbe venuto. Ecco perché un’ulteriore svolta sarebbe stata impressa, nell’immaginario collettivo, due anni dopo a Washington, quando Rabin e Arafat, con la benedizione di Bill Clinton si strinsero la mano sotto i riflettori del mondo intero.
I contenuti della pace
Al di là della solennità epica del momento, la pace del 1995 era un accordo più che concreto e obbligò i contraenti a mettere sul piatto della bilancia principi fino ad allora irrinunciabili: venivano definiti i paletti di un processo nel quale Israele acconsentiva alla nascita di un’entità statale palestinese (anche se il termine “stato indipendente” non venne utilizzato) e l’Olp si piegava a riconoscere lo stato di Israele, “rinunciando” al desiderio di espellere gli israeliani dall’area. Questi ultimi, inoltre, acconsentivano al ritiro da Gaza e da parte della Cisgiordania. Israele, inoltre, riconobbe l’Olp come unico rappresentante del popolo palestinese. A sottendere gli aspetti militari vi era poi un corposo piano di crescita economica comune, considerato la base per il decollo internazionale dell’area e per la coesistenza pacifica.
Promesse epocali, rinunce epocali
Gli accordi fondevano due serie fondamentali di scambi. In primo luogo, Israele si sarebbe affrancata dalla responsabilità della popolazione palestinese, pur mantenendo il controllo strategico del territorio. I palestinesi si sarebbero sbarazzati del giogo militare israeliano e avrebbero ottenuto l’autogoverno, giungendo gradualmente a conquistare lo status di nazione. In secondo luogo, il disconoscimento della violenza da parte di Arafat e il suo impegno a combattere il terrorismo – attraverso l’uso di una forza di polizia nazionale palestinese – sarebbe stato una garanzia anche per gli israeliani. I palestinesi, inoltre, avrebbero attinto dalla grande quantità di aiuti esteri dagli Stati Uniti (e da altri Paesi ) e dagli accordi economici stipulati con Israele progettati per promuovere l’occupazione e il commercio.
La sterzata di Rabin suscitò un’enorme opposizione da parte del Likud, sebbene la maggioranza degli israeliani, in un primo momento, lo sostenne fortemente, soprattutto perché l’accordo avrebbe permesso a Israele di sbarazzarsi della polveriera di Gaza. Specularmente, non tutti i palestinesi, tuttavia, furono favorevoli al nuovo corso di Arafat. Hamas vi si oppose violentemente scagliando una serie di attacchi terroristici contro civili israeliani.
La morte di Rabin e l’occasione perduta
L’atmosfera in Israele e nei territori palestinesi occupati, nei mesi precedenti l’assassinio di Rabin, era turbolenta; un misto di speranza, paura e odio. In alcuni manifesti, sventolati alle manifestazioni contro gli accordi, i nemici israeliani di Rabin solevano ritrarlo come un nazista, con l’uniforme nera delle Ss. Tra i palestinesi, i militanti di Hamas avevano già iniziato una campagna di attentati suicidi: Oslo per loro era una resa e non poteva esserci alcun compromesso territoriale con uno Stato che credevano non dovesse esistere. Eppure, la sensazione generale, popolare e intellettuale, suggeriva che gli estremisti, sebbene scalciassero, fossero stati messi finalmente sotto scacco. Rabin, che era stato a lungo il volto della macchina bellica di Tel Aviv, amava ripetere:
Io, che ho inviato eserciti al fuoco e soldati fino alla morte, oggi dico: salpiamo per una guerra che non ha vittime, né feriti, né sangue né sofferenza. È l’unica guerra a cui è un piacere partecipare: la guerra per la pace
Vederlo morire, per poi essere pianto dal mondo intero, costrinse anche Israele a interrogarsi sul non averlo protetto abbastanza. I negoziatori non avevano ancora toccato i punti più difficili dell’accordo di pace: i confini finali di uno Stato palestinese, il futuro di Gerusalemme, dei profughi palestinesi e degli insediamenti ebraici nei territori occupati: presumibilmente, sarebbe stata solo questione di tempo.
L’euforia per quelle strette di mano ebbe vita breve. La sera del 4 novembre 1995, alle 21.30, al termine di una manifestazione in favore del processo di pace e degli Accordi di Oslo a Tel Aviv, Rabin venne raggiunto da due proiettili. Erano stati esplosi da Yigal Amir, un giovane estremista “armato” dalle frange ebraiche più radicali, le cui ire Rabin aveva scatenato. Nel 1996 il Likud, ostile agli accordi, vinse le elezioni ed ebbe inizio l’era Netanyahu. Si provò a far rivivere lo spirito di Oslo a Camp David: ma all’alba del nuovo Millennio, i negoziati tornarono a fallire come era accaduto nei cinquant’anni precedenti.
La finestra lasciata aperta sulla storia si chiudeva violentemente per non riaprirsi mai più.
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