Era tanto attesa. Ed è arrivata.
La sentenza sull’ILVA farà parlare, farà discutere, farà arrabbiare più di qualcuno.
Quella sentenza è il frutto di una lunga lotta a cui abbiamo dato il via nel febbraio 2008, portando in un laboratorio specializzato un pezzo di pecorino contaminato dalla diossina. Il latte di quel formaggio proveniva da pecore e capre che avevano brucato nei pascoli attorno all’ILVA. Avevamo letto su un giornale che, attorno allo stabilimento, pascolava un gregge. La cosa ci incuriosì. Ci mettemmo alla ricerca del pastore. Una nostra ecosentinella, Piero Mottolese, lo incontrò. Non stava bene. Quel pastore morirà di cancro dopo non molto.
Ma facciamo un passo indietro.
Tre anni prima, nel 2005, avevamo scoperto che a Taranto c’era la diossina. Nessuno aveva mai parlato prima della diossina. La parola diossina era sconosciuta a tutti nella città dell’acciaio. Era come se un segreto venisse gelosamente custodito. I sindacati CGIL-CISL-UIL avevano partecipato a tanti tavoli tecnici e alle riunione degli atti di intesa con l’ILVA, ma la parola diossina non era mai venuta fuori fino al 2005. Fino a quel giorno di aprile in cui PeaceLink la lanciò con un comunicato stampa che venne letto come prima notizia al TG3 della Puglia. Ma quella notizia data dalla RAI con tanta evidenza probabilmente non era di interesse o di gradimento gradimento per la politica perché nessuno ne fece menzione. Eppure la diossina è un cancerogeno classificato dalla IARC il classe I, ed è un formidabile contaminante dell’ambiente e della catena alimentare. Ma come mai nessuno aveva mai pronunciato quella parola a Taranto? Non lo sappiamo, ma possiamo intuirne le ragioni. Sappiamo solo che ci imbattemmo nella diossina scandagliando i dati di un database europeo nel quale c’erano le sigle PCDD e PCDF che – a chi non sa di chimica – non dicevano nulla. Anche in quel caso l’indizio ci incuriosì. E venne fuori la terribile verità.
Fummo noi di PeaceLink a prenderci quella grave responsabilità nel 2005. E a portare nel 2008 in laboratorio il formaggio.
Per anni e anni abbiamo incontrato persone che ci dicevano scherzando: non vi hanno ancora arrestato?
Avevamo un’etichetta addosso: “allarmisti”.
In realtà due sono le parole che hanno guidato la nostra azione: curiosità e responsabilità.
Spirito di curiosità e senso della responsabilità.
Ficcanaso impiccioni che non si facevano i fatti propri, insomma.
Di fronte a chi pensava di cambiare il mondo con le grandi teorie, noi, più modestamente, ci accontentavamo dei dettagli. E dai dettagli ricostruivamo il mosaico generale, in un processo di ricerca e ricomposizione dei nessi. Possiamo definire questa metodologia “la rivoluzione dei dettagli”, prendendo in prestito il titolo di un libro della mia amica Marinella Correggia.
Quella rivoluzione dei dettagli ha guidato ricerche sempre più vaste. E se oggi si va a vedere quanto materiale abbiamo accumulato con questa metodologia c’è solo da rimanere sbalorditi. E si rimane sbalorditi per l’immenso lavoro svolto dalla polizia giudiziaria e dai magistrati. A cui diciamo grazie per aver condotto con rigore un’azione scomoda ma necessaria e di somma importanza.
Oggi è una grande liberazione. I ficcanaso impiccioni, quelli che venivano chiamati “gli allarmisti”, avevano ragione.
Sì. Proprio così. Avevamo ragione.
Oggi fioccano le condanne. E gli impianti pericolosi vengono confiscati.
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