A dieci anni dallo scoppio della cruenta guerra civile in Siria, due sono le certezze. La prima è che la Siria è in macerie, con una delle peggiori crisi umanitarie del nuovo millennio. La seconda che, al di là di molte previsioni, il regime di Bashar al-Assad ha riaffermato il proprio controllo sul paese, mantenendo il potere dopo oltre cinquant’anni di pugno di ferro. Indagando le ragioni di tale conflitto fratricida, vari osservatori hanno puntato il dito contro le riforme neoliberiste composte da privatizzazioni, liberalizzazioni e deregolamentazioni approvate dal governo tra il 2000 e il 2010, accusate di aver avuto un importante ruolo nello scoppio della guerra.
Cominciamo dal principio. Nel 1963, in una Siria soggetta al vento rivoluzionario che soffia da Est e in cui i movimenti anti-sistemici sono più attuali che mai, il Partito Ba’ath Socialista Arabo prende il potere con un colpo di Stato. Il supporto politico proviene dalle classi più svantaggiate della Siria rurale, con cui i nuovi governatori stilano un chiaro patto sociale: autoritarismo e pugno di ferro in cambio di sviluppo e giustizia sociale. Questo importante accordo sarà il pilastro che legittimerà il regime nei decenni successivi.
Fino agli anni ’90, sotto la guida di Hafiz al-Assad, il governo ha cercato di onorare il patto con la Siria rurale attraverso largo uso del settore pubblico, condizioni di credito favorevoli e prezzi calmierati, incentivando l’emergere di un ceto contadino più ricco e legato al regime. Molte terre vengono redistribuite, il modello di produzione cooperativa viene favorito, grandi piani infrastrutturali, oltre che per l’elettrificazione di massa, vengono introdotti e le università vengono aperte nelle campagne. Questo periodo, segnato, oltre che da importanti riforme sociali, anche da un autoritarismo sempre più pervasivo, lascia comunque spazio a meccanismi di mercato rilevanti, di cui il presidente, facente parte dell’ala destra del partito di governo, fa sin dalla sua ascesa nel 1970 propria bandiera. [1]
Il crollo dell’URSS e la fine del sostegno di Mosca sono traumatici per il paese. All’interno del Ba’ath, l’ala più radicale viene isolata e quei processi di mercato già precedentemente vagheggiati e timidamente introdotti dalla leadership diventano sempre più prioritari, anche se gradualmente. Con una serie di riforme inizia la liberalizzazione finanziaria, aprendo agli investimenti esteri con la Legge 10 del 1991. Prende avvio una progressiva privatizzazione dei mezzi di produzione, forte del supporto di un ceto contadino più privilegiato rispetto al resto della Siria rurale che riceve più sussidi e investimenti statali per assicurare l’autosufficienza agricola.
Il vero allontanamento dal patto sociale con le masse arriva negli anni 2000, durante la presidenza di Bashar al-Assad, figlio di Hafiz. La prolungata sofferenza del paese dopo la fine del supporto economico sovietico spinge la leadership a cercare un nuovo modello di sviluppo, che viene formalmente introdotto nel 2005 alla decima conferenza regionale del Partito Ba’ath sotto forma di “economia sociale di mercato”. L’ispirazione è il successo del modello cinese, ma, a differenza di esso, l’investimento privato comincia progressivamente a dettare le condizioni di sviluppo del paese, invece di essere subordinato a obiettivi nazionali.
Vari sussidi e prezzi calmierati vengono rimossi, causando l’impoverimento di masse rurali già in difficoltà: nel governatorato di Idlib, l’80% dei contadini nel 2001 possiede meno di un ettaro di terra e gli aiuti sono sempre stati fondamentali, rendendo più complesso sbarcare il lunario. La rimozione di queste tutele ha la malaugurata conseguenza di esporre i contadini al grave fenomeno di inflazione dei prezzi globali del cibo, che avviene tra il 2005 e il 2008, portando ad un incremento dei costi per le famiglie del 60%.
Il colpo di grazia è la siccità senza precedenti che colpisce la Siria rurale nel 2006. Sebbene nella regione della Mezzaluna Fertile fenomeni simili capitino periodicamente, la gravità di questo episodio è stata tale da causare il collasso della produzione interna. Le cause, secondo gli studiosi, sono da ricercarsi nell’indebolimento sistemico prodotto dal consumo delle falde acquifere a causa dei piani di irrigazione di massa attuati dal governo a favore delle imprese agricole più grandi, ma soprattutto nel cambiamento climatico prodotto dalle emissioni dei paesi sviluppati. La conseguenza è un’enorme emigrazione dalle campagne verso i centri urbani, cosa che rende sempre più evidente che del vecchio patto sociale non è rimasto più niente.[2]
Nelle periferie delle città, ai contadini disillusi si sommano più di un milione di rifugiati iracheni, in fuga dalla guerra nel loro paese causata dall’invasione degli USA nel 2003. Nei centri urbani, il lavoro, però, non si trova. L’investimento privato che le liberalizzazioni hanno portato è andato a concentrarsi più nei servizi che in altri settori produttivi, con un crollo della rilevanza della manifattura sul PIL al 4% nel 2011, di fatto impedendo un assorbimento della manodopera. Il lavoro informale diventa l’ultima spiaggia per queste masse escluse, arrivando a coinvolgere il 30% della forza lavoro. Questo accade mentre la sostenuta crescita del PIL favorisce solamente una élite sempre più ristretta, vicina al regime. [3]
Lo scoppio delle primavere arabe fa da catalizzatore per le proteste di massa del 2011, come opposizione inizialmente prima laica e anti-settaria, poi progressivamente monopolizzata dall’islamismo politico. La trasformazione delle proteste in guerra civile è stata il risultato sia della gestione del regime, che ha utilizzato una repressione spietata e troppe poche e tardive concessioni, sia dell’intervento di potenze straniere nel finanziamento e nell’armamento dell’opposizione, violando la sovranità della Siria e trasformando una questione interna in un bagno di sangue, per interessi ben lontani da quelli del popolo autoctono.
In conclusione, le riforme neoliberiste hanno avuto un ruolo nella marginalizzazione delle masse che è stata alla base delle proteste del 2011, ma lo scoppio della guerra civile in sé necessita di spiegazioni di più ampio respiro. Sebbene il regime abbia attuato una liberalizzazione più limitata rispetto a quella di alcuni paesi ex-sovietici, l’intervento statale è stato inefficace nell’evitare l’erosione del patto sociale tra Ba’ath e masse contadine, perché ha favorito un diverso blocco sociale con altri interessi.
Sin dall’inizio, fattori esterni hanno caratterizzato questa drammatica vicenda: il crollo del comunismo, la grande siccità, la guerra in Iraq e l’inflazione dei prezzi globali del cibo. Fenomeni per buona parte estranei alla volontà del regime, che però non è riuscito a adeguarsi, portando avanti una politica economica troppo spesso lontana dalle reali necessità delle masse. A cui oggi, con la guerra che volge (forse) al termine, sarà necessario rimediare se si vorrà seriamente tentare di ricucire le ferite insanabili che dieci anni di oblio hanno provocato.
Riferimenti
[1] Ajl, Max. “The Political Economy of Thermidor in Syria: National and International Dimensions” in “Syria: From National Independence to Proxy War”.
[2] Kelley et al. “Climate change in the Fertile Crescent and implications of the recent Syrian drought”. PNAS. March 2015.
[3] Daher, Joseph. “The political economic context of Syria’s reconstruction: a prospective in light of a legacy of unequal development”. European University Institute. 2018.
FONTE: https://www.kriticaeconomica.com/radici-economiche-guerra-civile-siriana/
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