La polvere della guerra che ha devastato Gaza e terrorizzato Israele si dirada, la conta dei morti sembra finita, la tregua tiene e per rafforzarla Biden ha inviato il Segretario di Stato Anthony Blinken in Medio Oriente. Iniziativa evidentemente dettata dal timore di sorprese.
Tutto ciò accade mentre ancora si sta decidendo il destino politico di Israele, con un premier di transizione, Netanyahu, che resta al suo posto grazie a quattro elezioni andate a vuoto e un premier in pectore, Yair Lapid, che ha tempo fino al 2 giugno per trovare le convergenze necessarie a formare un governo che rimpiazzi il primo, ponendo fine al suo decennale regno.
Poco il tempo a disposizione di Lapid, ma la finestra di opportunità è ancora socchiusa. Se la guerra fosse durata un’altra settimana, non avrebbe avuto alcuna chance di successo. Ma ora è diverso.
Questo il risultato dell’ultimatum inviato dalla Casa Bianca, che ha costretto Netanyahu a chiudere le operazioni belliche prima del previsto: dopo il fermo richiamo di Biden di giovedì scorso, che aveva detto di aspettarsi “entro oggi” un attutimento delle operazioni militari a Gaza, il premier israeliano non poteva far altro che chiudere la guerra.
Infatti, non poteva andare in aperto contrasto con gli Stati Uniti, peraltro avendo contro tanta parte dell’establishment della Difesa, convinto anch’esso della necessità di porre fine alle operazioni militari.
Così, sul piano della politica interna israeliana, sembra essere tornati alla situazione pre-conflitto. Va ricordato che mentre cadevano le bombe, Yamina, guidata da Naftali Bennet, e New Hope di Gideon Sa’ar avevano inviato segnali contrastanti rispetto al governo di cambiamento, al quale avevano di fatto aderito in precedenza.
il primo aveva dichiarato che, essendo cambiato il quadro, avrebbe nuovamente aperto un dialogo con Netanyahu, mentre il secondo aveva fatto una mezza apertura alla possibilità di un nuovo governo, solo, però, se la controparte avesse accettato una sua premiership.
Ora che la polvere (da sparo) si è diradata, sembra tutto cambiato. Sa’ar ha escluso con decisione l’idea di aderire a un governo con Netanyahu (Haaretz), mentre Bennet si è spinto oltre, dichiarando che la crisi ha evidenziato che la sicurezza degli israeliani si è “deteriorata a un livello insopportabile” (Times of Israel), attaccando cioè Netanyahu sul piano che da sempre ostenta come suo punto di forza, tanto da presentarsi agli israeliani come “mister Sicurezza”.
Non solo: secondo Bennet, la guerra ha evidenziato anche “un processo decisionale distorto, dettato da considerazioni personali e politiche”. “E tutto questo”, ha aggiunto, “mentre si crea una cortina fumogena di adorazione della personalità verso il leader, tanto che chiunque osi criticarlo viene duramente attaccato”. E ha concluso con la necessità di dare al Paese un nuovo governo, superando i veti incrociati.
Netanyahu, e tanti con lui (non solo in Israele), aveva pensato che con la guerra di Gaza il suo destino politico fosse salvo. Non è così.
Resta, però, il problema di dare concretezza a questo ipotetico nuovo governo di unità nazionale. Yamina e New Hope hanno in totale 13 seggi alla Knesset, che sommati a quelli dei partiti di centro-sinistra fanno un totale di 58 seggi.
Per fare un governo alternativo a Netanyahu mancano all’appello almeno 3 seggi. E dato che sembra più che improbabile un’ulteriore convergenza da destra, serve il supporto, in modi e forme da concordare, dei due partiti arabi, o di almeno uno di questi.
Le tragiche conflittualità tra arabi ed ebrei israeliani, rese ancor più avvelenate dalla guerra, non aiutano il compito di Lapid, che sta tentando in tutti i modi di portare a compimento questa difficile convergenza tra destra, centro-sinistra e partiti arabi. Ma la sua missione impossibile, come nel noto film, può riuscire.
Netanyahu ha vinto troppo presto. E tale imprevista tempistica può costargli una “vittoriosa” sconfitta.
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