Un leader sistemico come Mario Draghi non poteva non intervenire sovvertendo prassi ed equilibri consolidati nel sistema politico italiano dopo la sua ascesa al governo del Paese. Il presidente del Consiglio ha reso ulteriormente incisiva la sua azione impegnandosi, in queste ultime settimane, nella gestione della delicata questione delle nomine. Su cui ha impresso una vera e propria svolta.
La sfida chiave delle nomine: rimettere ordine
Non si può capire perché Mario Draghi sia divenuto il punto di riferimento di numerosi interessi di potere nazionali ed internazionali se non si comprende quella che è stata, nel corso della sua carriera da direttore generale del Tesoro, da governatore della Banca d’Italia e da massima autorità della Bce, la sua maggiore qualità organizzativa e politica: la capacità di nominare nelle strutture da lui dirette figure di propria fiducia e di comprovata competenza con cui costruire solidi rapporti di collaborazione professionali legati da una comune cultura organizzativa e amministrativa. Oggi riproposta nelle settimane in cui si inaugura la tradizionale stagione del rinnovo dei vertici delle società partecipate dallo Stato.
Dopo la complessa tornata della primavera 2020, caratterizzata dalle baruffe interne al governo Conte II sulla scelta per i vertici di società come Eni, Enel, Leonardo e Poste Italiane, per il 2021 il piatto non è meno ricco. La stagione delle nomine riguarda oggigiorno 74 consigli d’amministrazione e 41 collegi sindacali, in ben 90 società che fanno capo al ministero dell’Economia. La mappatura delle poltrone in scadenza è riassunta nell’analisi del Centro Studi CoMar, che elenca le aziende che a breve convocheranno le assemblee per il rinnovo dei vertici. In tutto sono 518 le caselle da riempire, di cui 342 consiglieri e 176 sindaci. Spiccano, tra queste, le partite per Cassa Depositi e Prestiti, Ferrovie dello Stato e la Rai, ritenute le caselle chiave, oltre a Gse, Sogei e, tra le controllate indirette, Anas.
Va in questo contesto sottolineato, piuttosto che disperderci in fuorvianti “toto-nomi”, che nella partita delle nomine Draghi è intervenuto imponendo regole certe e chiare e orientando un cambiamento di prassi che appare importante per l’intero mondo politico italiano. Rimettendo ordine, come sottolineato da Giuliano Amato in una recente intervista a Repubblica, in una liturgia troppo spesso smaccatamente orientata alla distribuzione di prebende, clientele e favoritismi.
Il senso delle nomine
Claudio Cerasa sul Foglio ha parlato della necessità di sostituire a una classe di manager legati al sottobosco del potere romano un maggior numero di dirigenti orientati alla padronanza delle logiche dell’economia di mercato, dotati di visione strategica e di capacità di azione in campo italiano e internazionale. Riteniamo possibile la costruzione di un’alchimia politica che non faccia venire meno l’esigenza per le società partecipate dal Tesoro di essere punti di riferimento in mercato che le vede nei settori di riferimento come prime contractor ma sappia coniugarla con il loro ruolo di punti di riferimento per l’interesse nazionale in materia economica.
Il metodo Draghi
Il premier è conscio di questa necessità e ha introdotto un nuovo, articolato modus operandi.
In primo luogo, Draghi ha spostato il baricentro della decisione in materie di nomine dalla politica e dai partiti allo Stato. Rimettendo quest’ultimo laddove le sue prerogative gli consentono e gli impongono di stare: al cuore del processo decisionale, come principale azionista delle società in questione e come titolare delle capacità organizzative necessarie a orientare scelte e trasferimenti di competenze. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze guidato da Daniele Franco e il suo apparato organizzativo in mano ad Alessandro Rivera acquisiscono in tal senso crescente centralità. Al Mef il compito di vagliare, con l’ausilio degli head hunter, i profili ritenuti ideali per i consigli di amministrazione, le poltrone dirigenziali, le cariche di amministratore delegato per consigliare il premier. Il quale si riserverà mano libera sulla scelta di amministratori delegati e vertici più strategici.
Questa prassi, come ha ricordato di recente il Corriere della Sera, mira a premiare meriti e competenze e a ridurre il peso delle preferenze di parte che la lottizzazione partitica avrebbe inevitab ilmente sdoganato; al contempo, aggiungiamo, appare una garanzia nei confronti della possibilità per le società in questione di operare serenamente e al riparo da rischiosi giochi al massacro legati alle dinamiche contingenti in campo politico, mediatico, giudiziario. Pensiamo al recente -spericolato – tentativo di destabilizzazione portato contro Leonardo dopo la condanna (peraltro in primo grado) dell’ad Alessandro Profumo per una questione – il caso Mps – in cui il manager dell’ex Finmeccanica è coinvolto indipendentemente dalla sua attuale mansione.
E qui veniamo al secondo punto: Draghi si è posto il problema della selezione ottimale della classe dirigente del sistema-Paese, per la cui costruzione strutture come il Mef di gestioni delle risorse. Un’ulteriore burocrazia strategica da cui Draghi ha pescato da febbraio in avanti è stata un’altra istituzione da lui diretta in passato, la Banca d’Italia. Non è un caso che il Tesoro sia guidato da una figura, quella di Daniele Franco, accomunato al premier dalla comune militanza ai vertici di Via XX Settembre e Via Nazionale. Il “partito” personale di Draghi si è riattivato dopo la chiamata da parte di Mattarella dell’ex governatore della Bce come sostituto di Giuseppe Conte e ha contribuito a una ridefinizione della mappa del potere in Italia. La condotta tenuta da Draghi sul fronte delle scelte in materia di intelligence e servizi segreti, con la nomina di Franco Gabrielli e Elisabetta Belloni come nuova autorità delegata alla sicurezza della Repubblica e nuovo direttore del Dis rispettivamente è istruttiva di un modus operandiin grado di espandersi anche alle società partecipate: mondo per cui il premier sceglierà in ultima istanza figure di rodata e provata competenza, preparate ad affrontare sfide che travalicano i confini nazionali e dotate di un background di esperienze complesso e di respiro internazionale.
Chi potrebbe far le spese di questo processo sono manager fortemente sospettati di imminente sostituzione come l’ad di Cassa Depositi e Prestiti, Fabrizio Palermo, a cui vengono rimproverati risultati deludenti, la mancata chiusura di dossier cruciali come Autostrade e OpenFiber, la perdita di Sace scorporata dal gruppo, che Draghi penserebbe di avvicendare col fedelissimo Dario Scannapieco, vicepresidente della Banca Europea degli Investimenti, e Gianfranco Battisti, ad di Ferrovie, a cui viene rimproverata la scelta di farsi liquidare oltre 1,5 milioni di euro dall’assicurazione del gruppo tra il 2014 e il 2016 di cui oggi Fs e Assicurazioni Generali contestano la validità.
Arriviamo quindi al terzo punto: la scelta sarà, in larga parte, diretta verso la chiamata di figure appartenenti a una generazione precedente a quella della classe politica partitica oggi affacciata sul proscenio nazionale. Questo mondo è quello di diretto riferimento del premier e del titolare del Mef, come testimonia la scelta da parte di Draghi di figure come l’economista Francesco Giavazzi, sua conoscenza di lunghissimo corso, come fondamentale consigliere in materia finanziaria e amministrativa di Palazzo Chigi e del supermanager Franco Bernabé per il rilancio del polo dell’acciaio di Taranto. Giavazzi, Bernabè e l’ex ad di Eni Paolo Scaroni compongono il trio dei più stretti consiglieri del premier, contribuendo a plasmare una cerchia stretta di figure esperte, temprate dall’esperienza degli Anni Novanta e di solido riferimento euroatlantico.
D’altronde, la nascita stessa dell’attuale governo segnala quanto difficilmente dai partiti sarebbe potuto venire lo stimolo a un progetto di rinnovo reale della classe dirigente. Quanto, cioè, la vera politica sia sempre più distante da una classe dirigente partitica dotata di scarsissima, se non nulla, capacità di visione e “commissariata” dalla minaccia esistenziale alla sicurezza dello Stato legata alla crisi pandemica. A cui la sottrazione della centralità del potere di nomina toglie una delle ultime armi a disposizione. Non a caso, come ricordato da Valerio Valentini su Il Foglio, chi più di tutti potrebbe avere da perdere dall’attuale fase inaugurata da Draghi sarebbe Luigi Di Maio e la sua cordata de facto ancora centrale e decisiva nel Movimento Cinque Stelle: per i pentastellati questa è l’ultima spiaggia, l’ultima occasione per distribuire nomine, posizioni apicali e vincoli di fedeltà prima di un presumibile ridimensionamento in future elezioni politiche, e non a caso Di Maio e i suoi hanno provato a fare quadrato attorno a figure ritenute amiche o vicine, come quella di Palermo. Percependo chiaramente che la prassi istituzionale rigorosamente seguita da Draghi rischia di depotenziarli definitivamente.
A dicembre scrivevamo su Inside Over che qualora Giuseppe Conte avesse lasciato il posto a Mario Draghi la politica italiana avrebbe in un certo senso commissariato se stessa, dando plateale dimostrazione dell’incapacità di molti partiti di produrre una classe dirigente all’altezza dei ruoli di governo in fasi emergenziali. E dunque di poter padroneggiare stagioni decisive come quella delle nomine. Il “metodo Draghi”, in tal senso, è iper-politico, sistemico, di profondo impatto: concentrando sullo Stato, prima ancora che sui partiti, la prerogativa delle nomine il premier fa venire meno uno snodo decisivo per la ritualità istituzionale delle forze politiche, uno scopo che di per sé ha a lungo giustificato la tenuta di maggioranze sfarinate o fragili. Obbligando la politica a cercare un senso, una direzione di marcia. A riscoprire, in un certo senso, sé stessa oltre le contingenze.
FONTE: http://osservatorioglobalizzazione.it/progetto-italia/nomine-draghi/
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