Giuseppe Conte appare sempre di più un “grande ex” delle istituzioni italiane a cento giorni dall’avvicendamento alla guida del governo con Mario Draghi. Se fosse confermata l’indiscrezione che segnala Fabrizio Palermo destinato a uscire dal consiglio di amministrazione di Cassa Depositi e Prestiti in favore del draghiano Dario Scannapieco, destinato al ruolo di amministratore delegato, si rafforzerebbe il trend che vede in progressivo smantellamento il partito dei fedelissimi dell’ex premier nelle istituzioni.
La fine della rete di Conte
Palermo seguirebbe il commissario all’emergenza Domenico Arcuri, il capo della Protezione Civile Angelo Borrelli e il direttore del Dis Gennaro Vecchione, allungando la lista delle figure legate al governo giallorosso che Draghi ha rimosso a partire dal suo insediamento a Palazzo Chigi. Segno che il grande bluff di Conte, con questa tornata di nomine pubbliche, potrebbe essere definitivamente scoperto: lungi dall’essersi conquistato una posizione determinante in seno alle istituzioni nazionale, il docente e avvocato divenuto premier ha goduto per un lungo biennio della rendita di posizione connessa alla sua permanenza nelle stanze dei bottoni. Un equilibrio situazionista frutto della capacità di Conte di barcamenarsi tra comparsate nei salotti internazionali, mediazioni ai tavoli strategici e spazi offerti dalla ridotta capacità di penetrazione politica dei partiti che hanno composto le sue maggioranze.
Il partito consolidato di Draghi
Il partito di Draghi nelle istituzioni, invece, è stato edificato ben prima dell’attuale fase, preesiste il periodo della pandemia che ha dato a Conte un’inedita centralità e ne ha alimentato le ambizioni personali e si fonda su collaudati rapporti personali e istituzionali. Tesoro e Banca d’Italia, istituzioni che il premier ha diretto e presidiato a lungo, sono “draghiane”. Uomini della vecchia guardia della classe dirigente italiana protagonista delle sfide degli Anni Novanta (Franco Bernabè, Paolo Scaroni, Francesco Giavazzi) non hanno mai perso familiarità con l’ex governatore della Banca d’Italia. Draghiano tra i draghiani è il ministro dell’Economia Daniele Franco.
Rodati boiardi di Stato, quali il neo-direttore del Dis Elisabetta Belloni e l’autorità delegata alla sicurezza della Repubblica Franco Gabrielli, condividono con il premier l’habitus mentale favorevole a un rafforzamento delle istituzioni e della classe dirigente. E anche nei partiti Draghi può contare su alleati e sostenitori trasversali: pensiamo alle responsabilità di governo affidate al leghista Giancarlo Giorgetti, strategico nell’esecutivo come Ministro dello Sviluppo Economico, o alla repentina conversione sulla via di Damasco di Bruno Tabacci, oggi membro del team di Draghi a Palazzo Chigi, da stratega per il Conte-ter a entusiasta per l’ascesa al governo del “caro amico Mario” a inizio febbraio.
Si capisce ora più plasticamente la malcelata volontà di Conte di presentare come unica alternativa alla nascita del suo terzo governo un’accelerazione della strada per le urne dopo la crisi apertasi con Italia Viva a gennaio: Conte era conscio che più a lungo la fase apertasi dopo la crisi dei giallorossi sarebbe durata più si sarebbero palesate le debolezze strutturali della sua presa sul potere. Il ritorno al governo di due partiti che avevano avversato l’era giallorossa, Lega e Forza Italia, la fine della segreteria di Nicola Zingaretti nel Partito Democratico, l’estromissione graduale di quasi tutti i membri della cordata dei figliocci di Massimo D’Alema e Goffredo Bettini nell’esecutivo, che cercava di tessere le fila di una convergenza del centrosinistra con il Movimento Cinque Stelle attorno alla figura di Conte, la crisi di identità dei grillini e la malcelata rivalità emersa tra Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio non hanno fatto altro che amplificare il senso di impotenza e debolezza dell’ex presidente del Consiglio.
Conte, un leader in declino?
La stagione delle nomine, che ha portato Draghi a intestarsi la stragrande maggioranza delle responsabilità per Cdp, Ferrovie e Rai e a lasciare ai partiti ben poco della posta in palio (Gse e Sogei tra le partecipate di punta) ha smantellato definitivamente l’idea che nelle istituzioni potesse essersi radicato un anche minimo sentimento di “contismo”. Ideologia le cui coordinate sarebbero identificabili praticamente in ogni campo del compasso politico. Il “vicepremier di due vicepremier”, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, è diventato il leader decisionista e spesso autoreferenziale della gestione della pandemia. Il capo di governo che parlava di “populismo” e “sovranismo” sanciti dalla Costituzione si è trasformato nel “punto di riferimento” dei progressisti (parola di Nicola Zingaretti). Critico dell’austerità e dei dettami rigoristi nel suo primo governo, Conte ha inaugurato l’esperienza giallorossa da garante dell’europeismo ortodosso. Dietro queste contraddizioni, c’è stata l’indubbia abilità di un uomo digiuno di politica di sapersi barcamenare tra coalizioni diverse e situazioni contraddittorie. Senza però comprendere fino in fondo le logiche di sistema delle istituzioni, che Draghi da navigato cocchiere padroneggia.
I giochi di spie che hanno accelerato la fine del governo Conte II hanno in tal senso dimostrato come l’ex premier avesse tendenzialmente ben poco chiare le complesse dinamiche e i bilanciamenti che regolano l’attività dei patrimoni comuni delle istituzioni come l’intelligence e le partecipate. Sulla cui ridefinizione strategica oggi Draghi spegne gli ultimi fuochi fatui del contismo dopo aver rimesso ordine sui servizi con Belloni e Gabrielli. Chiamato all’azione, il partito di Draghi si è mosso, mentre quello di Conte, ammesso che sia mai esistito, si è sciolto come neve al sole. Mentre l’avvocato pugliese tornato alla didattica rischia di trasformarsi, oggigiorno, da leader della rifondazione a commissario liquidatore di quel Movimento Cinque Stelle che per primo lo ha elevato al potere e oggi cerca con l’ultimo passaggio di nomine della legislatura di conquistare gli ultimi posti di influenza nel potere. Arenandosi però sugli scogli dell’era Draghi e imparando sulla propria pelle la differenza tra gli effetti di una gestione transitoria dell’autorità e quelli dell’azione di chi con le istituzioni e il potere ha una lunga famigliarità.
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